Domani, 12 dicembre 2019, è giorno di elezioni in Algeria. Il governo provvisorio ha indetto elezioni presidenziali per colmare il vuoto istituzionale creato dalle dimissioni dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, presentate il 2 aprile scorso. Ma la popolazione che chiede una vera transizione verso la democrazia nella sua maggioranza rifiuta queste elezioni e si mobilita per ostacolarle.

Secondo la road-map tracciata dal governo nominato dai militari, la soluzione alla crisi istituzionale che vive l’Algeria passa per l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. Secondo la popolazione che manifesta dal 22 febbraio scorso, prima contro Bouteflika, poi contro tutto il regime, la strada è tutt’altra.

Da ‘No al 5° mandato’ a ‘Togliamoli tutti’

Quando il vecchio presidente, ormai malato e malapena capace di muoversi e di parlare, si presentò di fronte al Consiglio Costituzionale per presentare le dimissioni, ci furono dei timidi festeggiamenti. Le strade algerine si riempirono di persone, macchine, clacson, canti e balli.

Il popolo aveva vinto una battaglia, ma fu da subito chiaro che se per l’esercito, che aveva ‘accompagnato’ la volontà del popolo di mettere in pensione il vecchio presidente ormai indigente, quella era la vittoria attesa, per i manifestanti invece la partenza di Bouteflika e dei suoi fedelissimi era soltanto una tappa verso una vittoria più grande.

Un giovane che passava di fronte a una troupe di Sky News in arabo che annunciava “la vittoria del popolo algerino”, si mise tra l’inviata e la telecamera e disse: “Non è vero che è questa la vittoria che volevamo. Noi vogliamo la partenza di tutto il regime: li dobbiamo togliere tutti”.

Da quel giorno quella divenne la nuova parola d’ordine del Hirak, il movimento di protesta. Yetnehaw ga’, li dobbiamo togliere tutti.

Da 10 mesi le manifestazioni sono settimanali: ogni venerdì pomeriggio un fiume pacifico ma determinato di uomini e donne di tutte le età, di tutte le classi sociali e in tutte le città del paese scende in strada.

Milioni di persone che dicono che il sistema si deve cambiare. Chiedono l’apertura di un largo dibattito politico, libero e trasparente, una fase di transizione, una assemblea costituente per riscrivere la costituzione algerina. Quella attuale, dicono, è stata troppe volte ritoccata per assecondare le esigenze del regnante di turno. Si parla di rifondare una nuova Repubblica. Una Repubblica veramente democratica e giusta, che rispetti i diritti e le libertà di tutti.

La Roadmap del Generale

Il Generale Ahmed Gaid-Salah, il capo di Stato maggiore, l’uomo forte del paese, invece non vuole sentir parlare di Costituente. Sostiene che il paese ha solo bisogno di un nuovo presidente. Perciò ha indetto le elezioni presidenziali convocate per il 12 dicembre 2012. E in seguito alle proteste del Hirak contro questa decisione ha dichiarato di voler validare le elezioni anche se votano poche centinaia di persone.

Il Hirak da parte sua ha dichiarato non solo di boicottare le elezioni, ma di impedirne il regolare svolgimento. Makanch intikhabat ma’a l’issabat, non ci sono elezioni con le cosche mafiose, che diventa il secondo motto della protesta, aggiungendo: Dawla madania, maci ascaria, uno stato civile e non militare.

Il braccio di ferro è ormai aperto. Dalla sera del 15 settembre, data in cui il Presidente della Repubblica ad interim, Abdelkader Bensalah, ha annunciato la data ufficiale delle presidenziali, le manifestazioni si sono fate più numerose, più partecipate e tutti gli interventi del Hirak, popolazione e attivisti, vanno tutte nella stessa direzione: no elezioni.


Tra repressioni e tentativi di divisione

Il regime, da parte sua, adotta una linea dura. Le forze dell’ordine cominciano a reprimere le manifestazioni, mentre prima avevano un atteggiamento amichevole. Il generale Gaid-Salah, in un tentativo di dividere la protesta tra berberofoni e arabofoni, chiama ad arrestare chiunque porta in piazza altro simbolo che la bandiera ufficiale dello stato algerino.

Le forze dell’ordine ottemperano e arrestano decine di manifestanti che si presentano con la bandiera del popolo amazigh (berbero). Gli arresti sono fuori da qualsiasi legalità. La costituzione algerina riconosce l’origine amazigh del popolo algerino e riconosce la lingua amazigh come lingua ufficiale dello stato. Ma i ‘portatori di bandiere’ come vengono chiamati, sono solo i primi arrestati. Presto la repressione si abbatte su attivisti, giornalisti, blogger e personalità politiche che continuano a sostenere le tesi del movimento popolare.

Oltre ai ‘portatori di bandiere’, come prigionieri di opinione attualmente in carcere si possono citare: Louisa Hannoune, portavoce del Partito dei Lavoratori, arrestata nelle prime settimana della protesta per aver partecipato a una presunta ‘cospirazione contro lo Stato maggiore’; Lakhdar Bouragaa, eroe della guerra di liberazione nazionale e vecchio oppositore politico e gli oppositori e attivisti del Hirak Karim Tabbou, Hakim Addad, Samir Belarbi,  Fodil Boumala.

In più di decine di semplici manifestanti, persone arrestate per aver indetto eventi di protesta su Facebook e altri reati di questo genere. A questo link un elenco di tutti i detenuti d’opinione.

La scelta della repressione dimostra quanto il regime conosce poco il suo proprio popolo. La repressione non è mai stata il miglior strumento per impedire agli algerini di arrivare a un obiettivo condiviso. La Francia l’ha capito solo dopo aver massacrato quasi un decimo della popolazione. Vediamo se l’esercito algerino sarà più saggio di quello di De Gaulle .

In prossimità delle (non)elezioni

Nell’ultima settimana, con l’avvicinarsi della data delle elezioni, sia le proteste che la repressione hanno visto un incremento notevole della loro intensità. Le manifestazioni sono passate da settimanali a quotidiane. centinaia di sindaci hanno annunciato la loro intenzione a non organizzare le elezioni. Laddove l’amministrazione locale no ha annunciato la disobbedienza, spesso la popolazione è andata a chiudere gli uffici comunali (o della sotto-prefettura) che organizzano le elezioni a livello locale. Si sono viste scene di distruzioni di urne sulle piazze pubbliche, gruppi di cittadini che hanno murato o saldato i portoni di accesso a queste istituzioni.

Nella diaspora, le elezioni sono iniziate l’8 dicembre e dureranno fino al giovedì 12. I consolati si sono organizzati per fungere da ufficio elettorale, come al solito. E nei paesi dove c’è una  diaspora abbastanza numerosa, uffici decentrati sono stati organizzati in varie città. In Italia ad esempio, gli uffici sono presso le due sedi dei Consolati Generali di Algeria a Roma e Milano, ma anche presso uffici distaccati a Napoli. Palermo, Parma, Brescia e Rovereto.

Ovunque gli attivisti del Hirak, molto presente anche nella diaspora, hanno presidiato questi uffici, se non per impedire ma almeno per disturbare, e testimoniare l’assenza di affluenza alle urne.

Ovunque si è potuto osservare un bassissimo numero di votanti. Si parla di percentuali inferiori all’ 1%. E la stessa tendenza sarà probabilmente seguita in Algeria domani.

Un silenzio imbarazzato e imbarazzante

Tutto questo tempo, la «comunità internazionale» è rimasta abbastanza silenziosa di fronte a ciò che succede in Algeria. Ne testimonia il silenzio dei mass-media internazionali che hanno relegato le notizie dal più grande paese africano a pochi e brevissimi lanci di agenzia raramente ripresi dalle singole testate.

Questo si spiega con una specie di imbarazzo che tutte le potenze internazionali nei confronti della questione algerina. Tutte sanno che il regime è una vera e propria mafia che ha saccheggiato uno dei paesi più ricchi del pianeta. Ma tutte hanno coperto il saccheggio in cambio di succosi contratti per l’estrazione del petrolio e del gas, per l’estrazione di altre ricchezze naturali, per la vendita di armi e tecnologie di guerra, per la partecipazione alle costruzione faraoniche di cui il paese ha fatto un consumo frenetico negli ultimi 20 anni. Hanno coperto il crimine, perché loro stessi sono complici diretti o indiretti.

Tutti hanno banchettato sul corpo nudo dell’Algeria e del suo popolo ridotto alla disperazione. Usa, Francia, Cina e Italia in testa, ma anche Canada, Spagna, Germania, Emirati Arabi, Turchia e molti altri. E oggi, per paura di perdere quella manna celeste, tutti stanno in silenzio.

Il regime è ovviamente cosciente e, per assicurarsi ulteriore complicità internazionale, ha fatto approvare al Parlamento in un momento che doveva essere di transizione e in cui le istituzioni dovevano gestire soltanto le questioni di ordinaria amministrazione, una nuova legge sulle risorse energetiche che apre ulteriormente il campo dello sfruttamento del sottosuolo alle multinazionali, scendendo sotto la soglia dei 51% a favore dello Stato algerino, che era imposta nelle leggi precedenti.

E anche con l’apertura alla pratica detta dello fracking per l’estrazione del gas di scisto, apertura che fu fermata negli anni precedenti dopo grandi proteste popolari, soprattutto nelle province meridionali del paese che sono quelle che ne avrebbero sofferto maggiormente.


Dieci mesi di lotta in solitudine

Il popolo algerino, dunque, lotta da dieci mesi in solitudine. Ma niente sembra intaccare la sua decisione, né le settimane che passano, né le intemperie, né la repressione e ancora meno la solitudine e la mancanza di solidarietà internazionale. Le folle oceaniche che ogni settimana, da dieci mesi, escono hanno una sola cosa in mente: fine del sistema mafioso per una Algeria libera e democratica.

Le elezioni si svolgeranno sicuramente. Il regime è determinato a portare a buon fine il suo piano. Da parte sua, il movimento è determinato ad ostacolarle a tutti i costi. E quindi, contrariamente al solito, il governo non potrà dare a una stampa internazionale compiacente una sembianza di atmosfera di elezioni ‘normali’ come faceva in passato. Queste elezioni avranno sicuramente e visibilmente dei tassi di partecipazione sotto ogni percentuale decente per la validazione di qualsiasi decisione politica. E quindi, di vie dopo il 12 dicembre ne rimangono due.

O chi tiene le redini del paese si arrende alla realtà dei fatti e accetta di liberare i detenuti e aprire il campo politico e mediatico per un dialogo nazionale libero, trasparente e inclusivo e l’inizio di una fase di transizione verso la Repubblica Democratica che chiede il popolo.
Oppure si decide di schierare i carri armati nelle strade e di sparare sulle folle in protesta aprendo così la strada verso una fase di caos aldilà della quale nessuno può prevedere i risultati. Dei risultati che avranno sicuramente gravi ripercussioni sul continente e sull’intera regione mediterranea.

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Articolo pubblicato su Q Code Magazine

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