Questo è in secondo di un racconto a 2 puntate. Per leggere la prima puntata cliccare qua.
La fine della guerra fredda è stata un disastro per il suo paese. I più alti comandi dell’esercito erano entrati in contrasto con alcuni settori dell’ex partito unico del fronte di Liberazione Nazionale. Per mantenere il potere, i generali si erano alleati con la vecchia potenza coloniale, la Francia. Invece per tentare di prenderlo, alcuni vecchi dinosauri del partito si erano alleati con i nuovi movimenti integralisti e con il loro sponsor naturale: gli Stati Uniti. 15 lunghi anni di guerra civile. Mezzo milione di morti. Un paese messo a ferro e a fuoco da due nemici, l’uno più spietato dell’altro.
Due decenni di guerre, massacri, sabotaggi, saccheggi delle terre e delle risorse naturali del paese l’hanno messo in ginocchio.
Quando Rakim decise di partire, e lasciare i tanto amati monti della Cabilia per l’Italia, era la fine degli anni 90. Anche se il peggio era già passato, la guerra non era del tutto finita. Ma il dopo guerra si annunciava già più distruttivo della guerra stessa. Il paese era tornato 20 anni indietro sul fronte della cultura, delle libertà e della pluralità politica.
La fine del conflitto avvenne quando fu trovato un accordo tra le varie potenze interne ed esterne. Ogni barone dell’esercito o del partito aveva preso l’esclusività su un settore ben preciso dell’economia: zucchero, caffè, elettrodomestici, agricoltura, pesca, traffico di droga, traffico di antichità, legno, ferro per la costruzione, informatica, telecomunicazioni… Ognuno aveva la sua riserva di caccia e nessuno doveva invadere il terreno dell’altro. Se c’erano intrusi o chi si illudeva di poter cambiare le regole, ci si metteva tutti insieme contro. Le nazioni estere si sono spartite il bottino principale: gli idrocarburi. La parte del leone alle compagnie di Bush e Dick Cheney e il resto distribuito a pioggia su le “Grandi Sorelle” e lor varie società annesse . La Francia si tenne, insieme all’Italia, i posti di primi fornitori esteri di beni di consumo e di attrezzature varie. E così visserò tutti felici e contenti tranne il poplo algerino.
Dalla sua indipendenza nel 1962, con la monolpolizzazione del potere dai militari venuti dalle frontiere, il paese è sempre vissuto in dittatura. All’eccezione dei 3 anni che hanno seguito le sommosse popolari del 1988, fino all’arresto del processo democratico nel 1992 con la ripresa del potere da parte dell’esercito, dicendo che volevano salvare il paese e la democrazia (sì sì proprio la democrazia!) dal mostro integralista … Quel mostro che avevano loro stessi creato qualche anno prima. Il paese tranne che in quei pochi anni è sempre vissuto in dittatura. Ma il Colonello Houari Boumedienne, che regnò dalla metà degli anni 60 fino al 1979 aveva instaurato un sistema dittatoriale molto raffinato. Allontanandosi dalla tradizione “nasseriana” dalla quale proveniva, egli mise in atto tutta una serie di leggi e di provvedimenti per evitare il culto della persona e la personalizzazione del potere.
La stampa era solo statale ma lasciava delle piccole valvole di sfogo. Nella strada la gente poteva parlare liberamente. Le spie erano numerose come in ogni regime, ma non perseguitavano la gente per ogni parola detta in pubblico. Si occupavano dei più pericolosi, dei pesci grossi. Chi dava veramente fastidio non veniva arrestato ma spesso si suicidava all’improvviso o subiva qualche incidente stradale o di aereo (come del resto succede nelle più vecchie tradizioni democratiche).
I partiti dell’opposizione erano costretti alla clandestinità ma erano tollerati. Infiltrati, manipolati, tenuti sotto controllo continuo ma… mai decimati. Non c’erano deportazioni di massa. La macchina della repressione era molto selettiva.
Dopo il 1980, gli spazi di espressione del dissenso sono aumentati certe volte e sono stati ridotti altre volte fino a quando nel 1988 delle sommosse popolari, indotte dall’interno del regime stesso, misero fine al sistema socialista (che era il bersaglio principale della nuova classe regnante) e al partito unico diventato pesante e obsoleto per gestire la nuova fase. Nel 1989 fu dato il via al multipartitismo.
Fu una vera festa. Il popolo algerino pensava di essere finalmente uscito dal tunnel. Non sapeva che era solo per un po’. Solo il tempo di tuffarsi in un tunnel ancora più lungo ancora più buio.
Alla fine della guerra civile che, dal 1992 fino al 2004, immerse il paese in un vero bagno di sangue, arrivò al potere un politico un lugubre personaggio sotto l’influenza del quale il paese fece 40 anni indietro in materia di cultura politica.
All’eccezione dei baffetti, sembrava forgiato su misura nello stampo dei peggiori politici di quelli anni lì: Bush, Putin, Berlusconi, Sarcozi… Piccolo di statura, narcisistico, presuntuoso, bugiardo e privo di ogni principio o scrupolo… Una vera macchina da potere come nemmeno Machiavelli avrebbe immaginato.
“Boutef”, era il nomignolo con cui lo chiamava il popolo. Beneficiò di un contesto molto favorevole. Subito dopo il suo arrivo, il petrolio, che negli anni novanta aveva toccato i minimi storici, cominciò a salire in modo incredibile. In certi anni toccò il prezzo record dei 200 dollari a barile. La banca centrale poté chiudere tutti i suoi debiti esteri e le casse dello stato rimanevano colme di petrodollari. Invece di approfittarne per modernizzare il paese, migliorare la qualità dell’educazione, della sanità e per lanciare qualche programma economico per il rilancio del lavoro e l’uscita dalla dipendenza dai prodotti d’importazione. Il nostro ometto usò le casse dello stato come se fossero sue personali, per la promozione della sua immagine, per le sue eterne campagne elettorali (anche se le gare erano sempre falsificate a suo favore dai suoi sbirri), per comprare i vari dinosauri del potere civile e militare, per le sue operazioni di vetrina e per buttare sabbia negli occhi distribuendo a tappetto prestiti agevolati, effimeri progetti economici e beni di consumo…
Il paese fu militarizzato ancora più che durante gli anni più violenti della guerra. Tutte le strade erano presidiate dall’esercito con armi da guerra e blindati. Il culto della persona era stato riportato ai livelli della vicina Tunisia del tristemente celebre Zinelabidine Benali.
Era tutto questo che, in quelli anni, faceva che Rakim ci andasse molto di rado nel suo paese e solo per brevissimi periodi. “Giusto il tempo di guarire la nostalgia con una dose non troppo grande di disgusto” diceva all’epoca, a chi chiedeva la ragione dei suoi brevi soggiorni in “terra patria”.
È rimasto lontano,ha cambiato vita e si è del tutto distaccato da quelle terre, da quella gente, che continuava però ad amare profondamente.
Non aveva visto arrivare i cambiamenti. Era troppo impegnato nel paese d’adozione per accorgersi dei profondi cambiamenti che stavano avvenendo dall’altra parte del Mediterraneo. Dalla morte dei genitori cominciò ad andare ancora più di rado.
Fino a quando, verso il 2038 o 2039, ci andò di nuovo e, camminando per strada, avvertì una strana sensazione. Si accorse che era arrivato teso come sempre. Pronto a cogliere ogni difetto e con esso rafforzare il suo disgusto e allargare il distacco. Invece non avvertì nessuna sensazione negativa.
Sentì come se il suo sguardo severo fosse del tutto fuori luogo in quel ambente rilassato e sorridente che regnava ad Algeri. Gli venne quasi da chiedere al tassista se era veramente la città di Algeri quella che era fuori. Si sapeva distratto ma non fino a sbagliare aereo. Nessun dubbio: era Algeri.
È da quel momento che ricominciò a riallacciare legami sempre più stretti con questa terra così bella.
Quando il medico gli annunciò l’entità del male che stringeva i suoi intestini e le poche probabilità che aveva di sconfiggerlo, egli decise di non seguire nessuna cura intensiva. Era sempre stato del parere che la vita doveva essere vissuta soltanto se valeva la pena. Allungarsi la vita al massimo non era mai stato il suo obiettivo. Ma adesso che stava per compiere 80 anni, accanirsi con le cure intensive gli sembrava addiritura osceno.
«Ho sempre accettato la mia mortalità. Non è a 80 primavere che comincerò ad aggrapparmi disperatamente alla vita.»
Si ricordò quando giovane e in ottima salute guardava con stupore chi per malattia o per vecchiaia trovava difficoltà a compiere gesti che per lui sembravano di assoluta banalità: salire una scala, alzarsi da una sedia, sollevare piccoli pesi…
Oggi toccava a lui. Il dolore alle articolazioni cominciato verso i 50 anni cominciò pian piano ad aumentare fino a stabilizzarsi e diventare un compagno fedele. Le distanze che poteva percorrere si accorciavano anno dopo anno. Il suo grande corpo si piegò poco a poco e faceva sempre più fatica a reggere il proprio peso. Le ditta delle mani e dei piedi cominciarono a diventare tutte storte per effetto dell’artrosi provocata dall’umidità della città in cui viveva. La sua vista diventò sempre più debole. Ci vollero vari interventi per riportarla ad un livello accettabile.
«È ora di andare a riposare, va! Cosa dovrei salvare con le cure intensive? L’anima?». Sorrise a questa idea, lui che non aveva mai creduto all’esistenza dell’anima.
Prima di partire da Torino aveva predisposto tutto per il suo funerale. Aveva scelto di farsi cremare e aveva affidato ad alcuni suoi amici il compito di spargere le sue ceneri sul Po’. Prima aveva pensato al mare, ma poi si è ricordato che tutti i fiumi alla fine vanno al mare. Così semplifico il compito ai sui fidati amici che anche loro avevano i loro anni.
«Io me ne vado, Algeri. È finito il mio tempo. Ma il tuo sta appena cominciando. Mi raccomando, continua così… continua a vivere. A vivere per davvero. Continua a sorridere. Ama i tuoi figli e fatti amare da loro. Io lascio questa vita, senza timori né rimorsi. Tu, invece, aggrappati alla vita. Non ti affidare mai più alla cultura della morte.»
Rakim continuava a guardare la baia di Algeri sognando ad occhi chiusi. Fu riportato verso la realtà dal rumore di una lite tra due automobilisti sotto il suo balcone.
Era vero che era il primo giorno di Ramadhan ma era l’ 11 agosto del 2010 e Algeri era lì davanti ai suoi piedi con il suo rumore, la sua sporcizia e la sua ipocrisia. Non era cambiato niente. Era solo un sogno. Triste di ritrovarsi nell’amara realtà, Rakim rientrò e chiuse la porta del balcone giusto in tempo per vedere la vicina di destra ch lo salutava con un sorriso mentre svuotava un piatto pieno di resti direttamente dal suo balcone su quello che una volta fu un giardinetto ma che ora era diventato una vera discarica.
Fine