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Rakim si svegliò di soprassalto come se avesse avvertito in sonno l’intensità del momento che stava per vivere. Si era addormentato tardi la sera prima e il sonno l’aveva colto sul comodo divano del balcone, dove si era rifugiato in cerca di un po’ di fresco.

Alle prime luci dell’alba, fu il chiasso intenso degli uccelli del giardino sotto casa a tirarlo dolcemente dal sonno. Ma rimase a sonnecchiare ancora un po’  fin quando le sirene di una nave che entrava nel porto finì per togliergli ogni dubbio: era veramente ad Algeri.  Allora si svegliò per ammirare, sotto la luce del mattino, quella città che in passato aveva tanto odiato e che ora aveva ricominciato ad amare.

«Morirò con la soddisfazione di aver visto “El Bahdja” ridiventare quella città bianca e allegra che in un lontano passato si era meritata questo sopranome che in arabo algerino voleva dire: la meraviglia. E bisogna dire che era ritornata veramente a meritarselo, il suo vecchio nomignolo.»

Dall’alto del quinto piano del palazzo della citée Mer et Soleil dove aveva dormito, Rakim aveva ai suoi piedi la baia di Algeri in tutto il suo splendore. Quella che fino agli anni ’60 era solo una piccola cittadina di meno di mezzo milione di abitanti era diventata una megalopoli tentacolare di quasi dieci milioni. Ma ciò nonostante era riuscita a recuperare il suo carattere di città mediterranea: verde e solare.

E dire che Rakim si ricorda del tempo lontano (anche se, a dir il vero, nella sua mente sembra ieri solo) in cui dietro le case gialle di Mer et Soleil c’erano ancora i campi seminati a grano o a legumi. E proprio ai piedi del loro palazzo, il primo entrando dalla strada che arriva da Husein Dey, si vedevano ancora le mucche pascolare nei prati della fattoria detta “Blanchére”, del nome del primo proprietario francese.

Oggi a perdita d’occhio c’erano case, strade, palazzi e giardini. Bianco, grigio e verde che si scontra con il blu smeraldo del mare e l’azzurro chiaro del cielo in un vortice di colori, odori e rumori.

Erano anni che Rakim non vedeva la città. Ogni volta che se ne allontanava, nella sua mente tornava a vivere quella piccola e allegra, ricordo della sua infanzia. Ma oggi, 9 agosto 2046, primo giorno del mese di Ramadan, il vecchio esule era tornato per vedere e salutare una ultima volta questa città. Non un’altra. Questa qui! Così come è oggi.

Sotto casa il bar del Hadj Brahim serviva già ai primi clienti le sue copiose colazioni a base di cafè, latte e croissants, dolci algeresi e spremuta di dolcissime arance della Mitidja. Uno dei camerieri dall’altra parte del terrazzo preparava già il barbecue per le grigliate di mezzogiorno. Il bar di Hadj Brahim era da tanti anni un luogo di ritrovo degli amatori della “kemia” algerese: vino rosso d’inverno o freschissimo vino bianco o rosato d’estate, ma sempre accompagnato con le golosità dello chef Mhidine, il cuoco della casa: Sardine grigliate, sardine in salsa al pomodoro, lumache al pepe nero, pezzi di peperoni e pomodori grigliati immersi in abbondante e profumata olio d’oliva cabila con aglio e prezzemolo; insalata di polipo, gamberetti in sugo, frutta secca tostata e salata, e poi tanti sotto sale e verdure crude.

Alcuni dei praticanti che tornavano dalla vicina moschea dopo la preghiera dell’alba salutavano con ampi gesti e larghi sorrisi i clienti del bar. Alcuni si fermavano addiritura a chiacchierare un attimo con qualcuno seduto sulla terrazza. L’ambiente era rilassato.

A Rakim venne quasi da ridere al ricordo degli anni dal ’90 al 2020, quando su quella strada all’appello alla preghiera si affrettavano orde di bigotti irsuti e di donne infagottate dalla testa ai piedi che guardavano con sguardi minacciosi chiunque non fosse diretto verso la moschea.

«Non oso immaginare cosa avrebbero fatto se in quella epoca, il primo giorno di Ramadhan, avessero visto qualcuno intento a desinare in pubblico, oppure se qualcuno avesse osato stappare una bottiglia di vino in loro presenza…», pensò il vecchio esule tra sé e sé.

Ma tutto ciò era solo un triste ricordo. Algeri era ormai una città serena, colta e aperta al mondo.

I suoi luoghi di culto non erano più luoghi di odio e di chiusura mentale, da tempo. La fede era ritornata un fatto personale e nessuno più pensa a tenere la barba lunga o vestire il qamis, il gilbab o il niqab per costrizione o per mimetismo sociale. Qualcuno lo fa ancora ma solante per sé e non cerca di imporre niente a nessuno.

La città bianca è diventata madre di tutti, credenti e non credenti, musulmani e non musulmani, berberi e arabi, algerini di origine o di adozione. Le librerie fioriscono ovunque grandi, luminose e piene di libri belli e interessanti. Gli intellettuali e gli artisti algerini hanno smesso da tempo di fuggire alla ricerca della salvezza altrove. Sono ormai benvenuti nella loro terra qualche sia la loro opinione. Associazioni, movimenti, raduni e collettivi di ogni genere animano le serate della città con ogni tipo di attività culturale.

I giovani, oggi, amano la loro città e non guardano più, come una volta, le navi in uscita dal porto come se fossero le uniche vie verso la felicità.

«Scommetto che non sanno nemmeno più il significato di una parola come “harraga”!»

Il solo rievocare quella parola riempì Rakim di tristezza al ricordo di quei milioni di giovani morti in viaggi di fortuna o finiti senza dimora fissa in quel occidente che pensavano fosse la loro terra promessa.

«Che tempi tristi…»

Ormai i giovani africani non dovevano più attraversare deserti e mari al pericolo della loro vita per finire schiavi nelle piantagioni di ortaggi e di frutta del sud Europa.

Il mondo ricco aveva finalmente capito che il pianeta era uno e che saccheggiare le terre povere per mantenersi sulla via dello spreco e dell’egoismo distruttivo era solo il modo più sicuro di uccidere il pianeta stesso sul quale si viveva tutti quanti.

L’economia e la finanza erano diventate questioni politiche regolate da istanze democratiche. La salvaguardia della qualità della vita era finalmente stata ammessa come unità di misura dell’efficienza dei programmi e non solo più la produzione e i benefici finanziari a profitto di una piccola minoranza. Cibo, sanità, scuola e libertà di pensiero e di espressione erano diventati valori universali inalienabili. E da quando le risorse naturali del continente erano controllate da autorità che mettevano l’interesse pubblico e l’ambiente prima di ogni altra considerazione, le guerre fomentate dalle multinazionali erano cessate e con loro la fame, la paura e la miseria.

L’Africa aveva ancora molto ritardo da colmare. L’acqua, ad esempio, era rimasta, a causa delle politiche sbagliate del passato, un grande problema da gestire. Ma i giovani avevano speranza e preferivano restare nei propri paesi a cercare soluzioni collettive, piuttosto che partire all’avventura in cerca della fortuna individuale.

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