05/09/2005 – Un referendum per chiudere i conti con la guerra civile

E’ iniziata la campagna del presidente Abdelaziz Bouteflika per l’adozione della Carta per la Pace e la Riconciliazione Nazionale, che sarà sottoposta a referendum popolare il 29 settembre prossimo. Ma si attiva anche il fronte del rifiuto di quella che alcuni considerano un insulto ai 200mila morti della tragedia algerina degli anni Novanta.
il presidente algerino bouteflikaColpo di spugna. Nelle ultime settimane, prima ancora dell’apertura ufficiale della campagna referendaria,  il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika aveva cominciato a percorrere il Paese da nord a sud e da est a ovest: Algeri, Skikda, Setif e ora anche Bechar nell’estremo Sud. Si tratta di convincere il popolo ad andare in massa a votare “sì” nel referendum per la “Riconciliazione Nazionale”. L’obiettivo espresso è quello di riappacificare finalmente l’Algeria e chiudere definitivamente il sipario su più di un decennio di orrori.
Nell’ultimo discorso pronunciato a Bechar, davanti ad una platea di cittadini e funzionari “portati” dalle amministrazioni locali e dalle imprese di stato come accadeva ai tempi del partito unico, il presidente si è rimangiato alcuni concetti espressi nelle sue dichiarazioni precedenti. Rinnega completamente l’intenzione di dichiarare una amnistia generale. Eppure, ricorda la stampa nazionale, durante il suo discorso alla nazione il I° novembre scorso, all’occasione del 50° anniversario dell’inizio della guerra di liberazione dal colonialismo francese, egli aveva pronunciato le parole “amnistia generale” ben tre volte, picchiando col pugno sul tavolo come per infondere questo concetto nella testa del popolo. Anche se la politica di un passo avanti uno indietro non è una novità nel percorso di Bouteflika, ci si chiede a che cosa è dovuto questa retrocessione nelle sue posizioni?
un cimitero di fortuna dopo una delle stragi degli anni novantaCambiare idea. La mezza ritirata del presidente è dovuta, secondo tanti osservatori, alla levata di scudi impressionante che l’annuncio del referendum ha creato in Algeria. Bisogna riconoscere che, almeno nella campagna di opposizione contro di esso, il progetto del referendum ha raggiunto uno dei suoi obbiettivi: conciliare l’inconciliabile. In effetti, vasti reparti delle forze dell’ordine e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, le famiglie delle vittime del terrorismo e le varie organizzazioni delle famiglie degli scomparsi (quelli rapiti dai servizi segreti e dall’integralismo armato) hanno gridato in coro un “no” forte e deciso. “No all’impunità!” Dicono tutti. “No alla politica dell’oblio.”
 “Siamo convinti che per un popolo straziato da tanto odio e tanta violenza, il sollievo deve passare attraverso la scoperta della verità su tutti gli aspetti della crisi. È una delle condizioni perché le vittime possano trovare nel profondo della loro coscienza la forza di perdonare. L’èsigenza della giustizia non deve essere considerata come una sete di vendetta, ma soltanto come un appello della società perché mai più l’impunità proteggerà i colpevoli di crimini. È un dovere del presente che, in futuro, la memoria collettiva proibisca per sempre delle derive di questo genere”. Così inizia l’appello comune delle  tre associazioni di famigliari di scomparsi (SOMOUD, ANFD, SOS-DISPARUS). Dura anche la condanna arrivata delle due leghe per i diritti-umani algerine . La LADH, seppure considerata più vicina al governo, si oppone chiaramente al progetto. In un appello firmato dal suo presidente  l’avvocato Boudjemaâ Ghechir, chiama a non buttare un velo opaco sulla tragedia, “sacrificando la verità e la giustizia sull’altare dei giochi politici”. Invita a definire le responsabilità e le colpe per i crimini “rifiutando questo status-quo in cui tutti sono colpevoli e tutti innocenti”. Mentre l’avvocato Ali Yahia Abdennour, presidente della più radicale LADDH, nella conferenza stampa che ha animato ad Algeri lo scorso 25 agosto, a dichiarato che “…c’è un calcolo politico dettato da ragioni interne al regime. Cominciano ad esserci problemi con i militari allora Bouteflika vuole esonerarli da tutto”.
 
una parata militare, simbolo di un centro nevralgico del potere in algeriaTutti gli uomini del Presidente. Il messaggio è chiaro: per ottenere in momenti storicamente difficili il sostegno totale dell’esercito, Bouteflika ha bisogno di tranquillizzare quelli che hanno le mani macchiate di sangue sul fatto che non avranno mai a che fare né con la giustizia algerina né con quella internazionale.
Ma perché “Boutef” (come viene chiamato nella stampa algerina) ha bisogno di fare sempre più concessioni a destra e a manca? Perché deve comprarsi la lealtà anche di quelle fasce delle forze dell’ordine che hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, probabilmente anche buona parte delle stragi che hanno marcato la metà degli anni Novanta? Perché deve comprarsi la fiducia degli islamisti “moderati”? perché deve sempre dimostrare attraverso referendum e plebisciti vari che è lui ad essere al commando del paese e non un altro?
Eppure, se si considera la questione da lontano, il Presidente sembra più forte che mai. Ha stravinto le elezioni presidenziali nonostante una forte campagna contraria di buona parte della stampa privata. Ha spento l’insurrezione della Cabila e si permette anche il lusso di negoziare oggi insieme ai pochi delegati del movimento rimasti l’applicazione delle parti meno scomode della loro piattaforma di rivendicazione. Ha allontanato, mandandoli in pensione o spingendoli alle dimissioni, alcuni dei generali più potenti dell’esercito: buona parte di quelli che avevano il potere reale in Algeria. L’ultimo in data sembra essere  il generale Larbi Belkheir, altro grande pillastro del regno della banda degli ex ufficiali dell’esercito francese. Quest’ultimo, anche se è stato uno degli artefici del ritorno di Bouteflika al potere ed era durante questi anni l’interfaccia tra la Presidenza e l’Esercito, è stato allontanato con discrezione, senza troppi rumori, verso il ruolo di ambasciatore plenipotenziario presso il regno del Marocco. Una posizione di certo non insignificante, visti i rapporti delicati con il vicino regno alawita, ma comunque marginale se confrontata con i ruoli fino ad oggi svolti.  Per cercare di capire la dinamica che si nasconde dietro l’atteggiamento di Abdelaziz Bouteflika, bisogna risalire all’epoca del suo arrivo al potere.

dimostrazioni di piazza ad algeriUna lunga storia. Quando viene eletto, il 15 aprile 1999,  il nuovo presidente algerino è percepito da tutti come l’uomo del “cambiamento nella continuità”. Egli era nello stesso abbastanza nuovo per significare un cambiamento di rotta significativo e abbastanza uomo del sistema per non metterlo in pericolo. L’uomo arriva come candidato dell’Esercito. Non lo nega, ma afferma in televisione che è deciso a non essere una marionetta tra le mani dei militari, e tiene parola. Ha tante ambizioni, il Boutef. È un’eccellente funambolo. Sa camminare sul sottile filo che separa i clan al potere e si avvicina sempre di più dal potere assoluto. Ma una bella fetta di questo potere rimane ancora tra le mani dei generali. Il generale Medien alias Toufik è sempre alla testa della DRS, i servizi segreti, altri tengono posti chiave nel ministero della diffesa, nello Stato Maggiore e nell’Esercito Nazionale… E chi tiene queste istituzioni tiene l’Algeria. È stato così dall’indipendenza.  Per tenere e poter rafforzare i suoi poteri “Boutef” sa di poter contare su tre pilastri: l’ala riconciliatrice dell’Esercito e del Governo, gli islamisti moderati e soprattutto sugli Stati Uniti. Ma sono dei pilastri esigenti che richiedono sempre più concessioni a loro favore. Allora, nei momenti di stretta, il presidente non ha scelta che concedere… sempre di più.  Ha concesso una prima amnistia e oggi è sul punto di organizzarne un’altra. Aveva promesso tante riforme moderniste (riforma della scuola, abrogazione del codice della famiglia, ritorno al fine settimana internazionale del sabato e domenica…) ma ha rinnegato tutto sotto la spinta delle aree più conservatrici del potere… Ma la concessione più pesante è quella che ha fatto alle multinazionali americane. Con l’adozione della nuova legge sulla gestione energetica (una legge scritta non da un legislatore algerino ma da un noto studio Newyorkese), l’Algeria diventa così, prima ancora dell’Iraq, l’anello debole dell’OPEP, essendo il primo paese tra i maggiori produttori mondiali di petrolio a cedere più del 50% delle sue risorse al privato. “La nuova legge sugli idrocarburi ci è stata imposta” ha confessato il presidente della repubblica. Ironia della sorte lo dice proprio il 24 febbraio 2005, cioè nel 34° anniversario del discorso storico del presidente Houari Boumedienne che, il 24 febbraio 1971, annunciava, battendo col pugno sul tavolo, la nazionalizzazione delle risorse energetiche e minerarie del paese. Abdelaziz Bouteflika ha trionfato, è più forte che mai. Ma ha anche tanti creditori, che ora cominciano a presentare la fattura. Ma, purtroppo, a pagarla questa fattura salata sarà il popolo algerino. Anzi, a sentire il signor Hocine Malti, ex vicepresidente della Sonatrach (la compagnia petroliera algerina) nei gloriosi anni della nazionalizzazione, ma anche esperto internazionale di politiche energetiche,“(…)se l’OPEP dovesse lanciarsi sulla via tracciata da questa legge, cederà alle grandi compagnie petrolifere mondiali il controllo della produzione dopo averle ceduto quello dei prezzi. Allora, quel giorno, sarà il mondo intero ad essere perdente”.

Pubblicato su Peace Reporter