30/07/2005 – Un reportage nella Siria di oggi

Damasco, Bab al Giamii, porta della grande Moschea ommayade, 5.30 del mattino. La piazza della moschea è tranquilla. Pochi i passanti. Qualche pellegrina iraniana passa per andare ad assistere alla preghiera dell’alba in uno dei mausolei sciiti della città, qualche mercante che va a preparare il suo banco nel vicino mercato, alcuni tiratardi che non vogliono rientrare e cercano di approfittare della brezza mattutina, unica tregua concessa dalla spietata onda di calore che travolge la città da giorni.
Sulla piazza un inserviente della moschea svuota sacchi di cibo per i piccioni. Oltre a dare loro da mangiare, l’addetto bada anche che nessun curioso venga a disturbare i suoi protetti mentre si sfamano.
Sembra un rito quotidiano, consacrato da anni. Tutti i piccioni di Damasco si danno appuntamento qui ogni mattina, “per colazione”, dopodiché ognuno vola per una parte diversa della città in cerca di sopravvivenza. Nessuno rimarrà qui. Perché qui, per loro, fra un’ora, sarà l’inferno. Centinaia di migliaia di persone di tutti i colori, provenienze e obiettivi si spingeranno per aprirsi un passaggio in una folla densa e variopinta.
La moschea degli Ommayadi è il simbolo della città. Il luogo impone rispetto non solo per le sue dimensioni vertiginose, una città nella città, ma soprattutto per la lunga storia che raccontano le sue mura. Il luogo è stato tempio aramaico, fenicio, greco, romano, cristiano, per diventare infine musulmano. La stessa struttura, le stesse pietre, hanno dato riparo a questa specie di gioco di bocce per oltre seimila anni…seimila anni di vita quotidiana, di speranze e di preghiere, ma anche di violenza e di aggressioni.
Il luogo è anche simbolo della convivenza pacifica che i popoli della regione hanno spesso saputo costruire nonostante la politica. La moschea è ufficialmente musulmana sunnita, ma di fatto i più numerosi a pregarci sono gli sciiti, i cristiani e altre minoranze religiose. In effetti il luogo contiene le sepolture, tra altri, di Giovanni Battista,  e forse della testa dell’Imam Hussein (secondo imam per importanza per gli Sciiti, figlio di Ali e nipote del profeta Maometto) e di vari santi sunniti.
Damasco è rimasta isolata dal mondo per un po’ di tempo ma sta riprendendo molto velocemente il suo ruolo di piattaforma di scambio tra Medioriente e resto del mondo, come è sempre stata.
Il paese vive una situazione paradossale di grandi speranze e di altrettante grandi paure. Da una parte c’è lo spiraglio di libertà individuale e politica aperto dall’arrivo del presidente Bashar al potere; dall’altra parte ci sono le paure legate alla situazione regionale ed internazionale.
“E’ da pochi anni che si comincia a vedere la fine del tunnel” mi dice S.K, “Sui giornali ricominciano ad apparire nomi di persone e movimenti che fino ad un anno fa non potevi neanche sussurrare in una stanza vuota senza avere un brivido. Con l’arrivo di Bashar le catene si sono allentate un pochino.” Di nazionalità siriana, S. K è ingegnere di formazione, ma firma articoli su varie riviste e giornali siriani, e anche libanesi e iracheni. In effetti dal 2000, alla morte di Hafiz Al Assad, il figlio, Bashar, che in realtà aveva l’incarico della gestione dello stato ormai da due anni perché il padre era già impedito dalla grave malattia, pronuncia un discorso in occasione del suo giuramento in cui riconosce la difficoltà in cui vive il paese e promette delle riforme. Per dimostrare la sua buona volontà libera subito migliaia di prigionieri politici. Tra cui anche alcuni grandi nomi. Oggi quest’apertura si sente dappertutto. La gente osa parlare. Le opposizioni non sono riconosciute ma agiscono in semi clandestinità. Si discute di politica ovunque. Anche se nell’ultimo periodo il regime sembra aver ripensato certe sue concessioni e ha arrestato alcuni eminenti animatori del dibattito politico, tra cui anche due parlamentari. Ma prima di arrivare all’attualità torniamo un po’ indietro nel tempo, a quello che l’opposizione siriana chiama gli anni neri di Hafez.
Quando nel 1969 Hafez Al Assad, un ufficiale delle forze aeree di 39 anni, appartenente alla minoranza Alauita, allora ministro della difesa, prende i comandi del partito Baath e quindi anche del paese, scartando Salah Jadid, considerato troppo attaccato all’Unione Sovietica, la Siria aveva vissuto un lungo periodo di instabilità cosparso di guerre di liberazione, guerre civili, colpi di stato e lotte interne. L’ultimo colpo di stato nel marzo del 1963, quello che portò il partito Baath al potere, è un puro prodotto di quegli anni di guerra fredda e mette la Siria indubitabilmente nel campo socialista. Hafiz Al Assad tenta di ridimensionare le cose e di dare più autonomia al paese nei confronti dell’Impero sovietico.

Il paese viveva in quegli anni una vera ebollizione culturale e politica. I partiti di sinistra, molto forti e molto attivi, e i Fratelli musulmani, in crescita continua, sfidavano apertamente il potere del partito Baath. La debolezza nei confronti dell’opposizione era anche una delle principali critiche del generale Assad nei confronti di Jadid, il suo predecessore. Il suo arrivo al potere segna la politica di pugno di ferro nei confronti dell’opposizione. Gli anni settanta hanno segnato l’inizio di una vera e propria guerra tra opposizione (comunisti e Fratelli musulmani) e governo. Attentati, scontri armati, manifestazioni represse nel sangue marcano questi anni. Il culmine di questi scontri avviene nel 1979. La scintilla è il massacro eseguito da un allievo ufficiale in una scuola di cavalleria motorizzata contro 40 suoi colleghi, tutti appartenenti alla minoranza alauita, quella del presidente Assad.

La repressione si abbatte subito su ogni forma di opposizione, terribile. Centinaia di persone sono giustiziate dentro le carceri, e nelle città gli esponenti dell’opposizione sono ricercati attivamente e passati per le armi, senza nessuna forma di processo. L’attentato del 1980 contro la persona di Hafez Al Assad aumenta ancora la tensione portando il paese in un crescendo di violenza, peggiorato dall’intervento della Siria in Libano. L’opposizione accusa il Rais di aver colpito i movimenti di sinistra pro-palestinesi e incoraggiato l’estrema destra  falangista cristiana. L’ondata di violenza toccherà la cima della sua intensità con il massacro di Hamah.

Il due febbraio 1982 la città di Hama, un centro urbano vecchio più di quattromila anni, diventata durante questi anni il covo di tutte le opposizioni, si sveglia assediata dall’artiglieria e dai blindati dell’esercito siriano sotto il comando del Generale Ali Haidar, ufficiale molto vicino alla famiglia Al Assad e soprattutto al fratello Rifat, capo delle “Unità di Difesa del Baath”, vero artefice della “pulizia” operata dal regime in questi anni. A ben poco servì la resistenza eroica dei guerrieri comunisti, nazionalisti siriani e islamisti. La città fu sottomessa ad un bombardamento senza tregua per ben 27 giorni prima dell’assalto. Gli ultimi sopravissuti furono finiti all’arma bianca. Le organizzazioni internazionali parlano di cifre che vanno dai 30 ai 40.000 morti e 100.000 espulsi, ma l’opposizione interna parla di più di 100.000 morti. “Fatto sta che della vecchia città di Hamah non c’è più nessuna traccia.” Mi dice C., il nostro accompagnatore: “Guarda. Questa era una città millenaria. Oggi non c’è una costruzione che abbia più di vent’anni.”
Hamah sembra una qualunque città mediorientale. La sua autostazione assomiglia a qualsiasi autostazione di una città media siriana. Dei minibus carichi di viaggiatori vanno e vengono in continuazione. La città attorno è anonima. Le case, di due o tre piani per lo più, sono coperte di scritte e di insegne pubblicitarie. La vita si svolge tranquilla. Niente lascia intravedere che qui, ventitre anni fa, si consumava uno dei più gravi massacri del dopoguerra. Il mondo allora tutto assorto nella guerra fredda non reagì per paura di vedere Al Assad, che fino ad allora a saputo abilmente camminare sulla linea di confine tra i due schieramenti, entrare definitivamente nel campo avverso.
Con il massacro di Hamah finisce lo scontro armato, ma non finisce il calvario siriano. Gli anni ottanta furono terribili. Repressione a tutti i livelli. Una parola sbagliata, un vicino malintenzionato, un battibecco con un membro dei servizi o delle forze armate poteva portare una persona in prigione, nella sala di torture o persino alla morte.
Ciò nonostante, nel 1991, quando nello stupore generale la Siria si schierò tra le forze d’intervento in Iraq nella prima guerra del Golfo, il popolo uscì per le strade e manifestò chiaramente il suo dissenso. Le forze di sicurezza ovviamente non lesinarono sui metodi repressivi, dando luogo a delle vere e proprie battaglie di strada. Questo fu per tutti gli anni novanta, esclusi i vari attentati isolati perpetrati qua e là, l’unico movimento di contestazione rilevante. Il vecchio leone ha portato l’arte del potere assoluto alla sua quintessenza, assicurandosi per i suoi vecchi giorni un regno senza opposizione. Al punto che anche un dilettante come il secondogenito, Bashar, non trovò nessun ostacolo per prendere la sua successione.
All’inizio Bashar non si interessava di  politica ma seguiva tranquillamente i suoi studi di medicina in Inghilterra. A succedere al padre doveva essere il primogenito, Bassil. Ma alla morte di quest’ultimo in un incidente di macchina, nel 1994, il fratello minore fu richiamato ad occupare il centro dello scacchiere politico. Dal 1998, anno dell’inizio della malattia del padre, Bashar prende i comandi del paese.
L’arrivo di Bashar al potere segna una svolta storica nel corso del regno degli Assad. Alcuni dicono che è la personalità dei due leader ad essere diametralmente opposta. Hafez era un figlio di contadini poveri che non si potevano permettere di mandarlo all’università; allora, come fanno tanti dei poveri del mondo e in modo particolare quelli del suo gruppo culturale, gli Alaui, Hafez si arruolò nell’esercito nazionale. Il suo è un percorso duro e sofferto per fare carriera prima nell’esercito e poi nella politica. Si è aperto la strada con coraggio, furbizia e forza di carattere.
Il figlio invece è nato privilegiato tra i privilegiati. Non si è mai dovuto preoccupare di niente. Ha trovato tutto pronto. Anche la famiglia non ha mai voluto annoiarlo troppo con gli affari dello stato. Intanto, nelle regole non scritte della repubblica monarchica, era al fratello maggiore che incombeva la sostituzione del padre dopo la morte. La formazione militare e politica è toccata a Bassil. Bashar, lui, ha seguito un percorso universitario lontano dall’esercito e dai giochi politici. Ha viaggiato tanto e frequentato la gioventù dorata di mezzo mondo. Parla un inglese perfetto ma fa un po’ fatica con l’arabo, soprattutto quello classico, quello del potere. I sostenitori di questa teoria pretendono anche che se fosse per Bashar la dittatura finirebbe subito. Soltanto che l’era del padre ha costruito un sistema che ormai si regge da solo. Bashar, finalmente, sarebbe soltanto una ruota in questo ingranaggio preciso e ben lubrificato.
L’altra versione è quella di chi pretende che in realtà sì il sistema è quasi perfetto e si regge da solo. Solo che le mafie in esso contenute, che hanno accumulato capitali vertiginosi, razziando letteralmente le risorse del paese, adesso vorrebbero anche far fruttare questo capitale creandosi una sembianza di apertura economica  e politica. Allora approfittano del cambio di leadership e anche delle pressioni internazionali per mettere in moto il loro piano, fino a quel giorno ostacolato dalla figura diventata ingombrante del vecchio leone.
Entrambe le versioni sono d’accordo sul fatto che Bashar non può fare altro che adeguarsi al sistema introducendo delle trasformazioni formali, ma niente di sostanziale.

Seconda parte

Dopo il primo discorso alla nazione fatto da Bashar Al Assad, neo Presidente della Repubblica, all’occasione della cerimonia di giuramento nel luglio del 2000, in cui ha riconosciuto la durezza del regime e promesso delle riforme, soffia una ventata d’aria fresca sul paese in genere e sulla città di Damasco in particolare. Nelle università si creano dei forum spontanei  di discussione. Ovunque si parla di riforme, di democratizzazione…di fine dello stato d’emergenza in vigore dal 1963. L’ondata di libertà si chiama primavera di Damasco e le rondini che lo annunciano sono gruppi di intellettuali indipendenti che vogliono credere in un futuro migliore e trascinano con loro tanti giovani.
 
“Ci abbiamo creduto” dice Hassan, intellettuale e funzionario della televisione nazionale. “Ovunque si parlava di cambiamento. In TV non c’era quasi più censura. Potevamo far vedere e sentire quasi di tutto…è stata una parentesi bellissima.” Una parentesi bella ma breve che viene chiusa violentemente all’inizio del 2002, con l’arresto dei principali animatori della primavera tra cui i parlamentari liberali: Riadh Saif e Mamun Homsi e l’intellettuale comunista Arif Dalila. Il sistema Bathista ha visto le sue basi minacciate dalla permissività del nuovo leader e si è ribellato. Il “principe” è stato richiamato all’ordine: vanno bene il liberalismo economico soprattutto se tutto il business è tra le mani dei baroni del partito e dell’esercito, va bene un’illusione di apertura. Ma niente riforme politiche e niente pluralismo o condivisione del potere.
“Resta che in Siria oggi si respira una aria diversa” continua Hassan. “All’epoca del padre, per i testi che avevo scritto e le trasmissioni che ho mandato in onda nel 2001, il minimo per me sarebbe stato l’ergastolo. Oggi si sono accontentati di isolarmi e di non darmi accesso alla produzione. Sono libero di andare e venire al lavoro quando voglio. Non esisto più per i miei responsabili. Una specie di voce fantasma sul libro paga. Poi oggi la gente si fa prendere dall’illusione di libertà che offre la finta liberalizzazione del mercato. Ci sono i telefonini, c’è internet, la Coca cola sta per arrivare sul mercato. Cosa chiedere di più?”
In effetti, l’unico risultato tangibile delle riforme promesse è l’apertura del mercato al commercio internazionale. Lo scenario è il solito: smantellamento del settore pubblico, svendita dei beni pubblici e apertura del mercato alle merci d’importazione. Ma di libertà di mercato in realtà c’è solo l’illusione. I baroni dell’import sono generali dell’esercito, membri potenti del partito e soprattutto membri del potente clan presidenziale. L’esempio più significativo di questa egemonia lo si trova nella telefonia mobile. Apparentemente in Siria ci sono due compagnie che si fanno concorrenza sul mercato della telefonia mobile: Syriatel e 94. Ma se si va a vedere da vicino di concorrenza ce n’è ben poca. La compagnia 94 è proprietà di Maher Al Assad, fratello minore del presidente, e Syriatel è di Rami Makhlouf, cugino dalla parte della madre dei fratelli Al Assad. Qualche mala lingua è arrivata a dire che la primavera di Damasco è finita quando i forum hanno smesso di parlare di teoria e di filosofare e hanno cominciato ad interessarsi alla “cosa economica”. Vogliono per prova il fatto che i due parlamentari arrestati avevano introdotto pochi giorni prima un’interpellanza in parlamento sulle condizioni opache in cui sono stati concessi i contratti di telefonia.
Eppure nonostante la repressione e nonostante l’indifferenza internazionale, un’opposizione in Siria continua ad esserci. Ci sono i partiti, quelli più radicali: Lega dell’azione comunista (di Fateh Giamus e Aslan Abdelkarim tra altri) e i Fratelli musulmani, che si nominano ancora nel più grande segreto, che rimangono tabù e che contano ancora più di 20.000 prigionieri politici nelle carceri del regime, mentre altre correnti più moderate, anche se ancora informali, riescono ad attivarsi in qualche modo. Tra questi movimenti due correnti uscite dal Partito comunista Siriano. Il Partito Comunista Siriano ha conosciuto una prima rottura quando il suo allora segretario generale, Khaled Bagtash, incoraggiato da Mosca, decide in maniera unilaterale di dichiarare l’alleanza con il partito Baath al potere e di entrare nel “fronte”, la pseudo coalizione al potere, composta dal Partito Arabo Socialista del Baath, di una dozina di sigle fantasma (quasi tutte formate da combinazioni delle tre parole: Nazionale, Arabo e Socialista) e del Partito Comunista (Khaled Bagtash) diventato nel frattempo “Partito Del Popolo”.
Il gruppo dei dissidenti, che in realtà erano la maggioranza nel Comitato Politico, continuò la strada dell’opposizione e adottò una posizione molto critica anche nei confronti dell’Unione Sovietica e delle sue posizioni ambigue in Medioriente. Questa corrente è conosciuta oggi come Partito Comunista (Political Office). L’altra scissione che si sta producendo in questo momento è quella di membri del Partito del Popolo, che hanno quindi in tasca un tesserino di un partito della coalizione al governo e che però hanno deciso di prendere le distanze dalla politica del governo, “troppo liberista e distruttrice del bene pubblico a favore della proprietà privata di pochi”, ma anche di non reazione nei confronti “del piano aggressivo dell’asse Israele-USA nella regione.” Questa tendenza è diffusa tra la classe media di Damasco e si è data il nome di corrente “Kassioun” (Kassioun è il monte che domina la città di Damasco e dal quale scendono 7 torrenti d’acqua limpida e fresca). La corrente Kassioun chiede un congresso nazionale per dare una svolta storica al Partito del Popolo, ma decide nel frattempo di ignorare il comitato Centrale costruito intorno alla persona di Khaled Bagtash e della sua famiglia (moglie, figli e entourage).
Altro partito molto presente nel dibattito nazionale è il Partito Nazionalista Sociale Siriano. Nato nel 1932, sotto l’ombra dell’uomo politico libanese Anton Saadeh (1904-1949), l’SSNP è un partito che si vuole nazionalista ma di una nazione che loro chiamano la Siria Naturale, cioè tutta la Mezzaluna Fertile. Il partito nasce come rifiuto della spartizione colonialista della regione e come alternativa ai nazionalismi (esclusivisti) su base religiosa o linguistica che si stavano sviluppando nella regione. Il Nazionalismo Siriano parla di Patria Naturale (terra) proprietà di tutti i popoli che la abitano. Rifiuta la partizione attuale degli stati ereditata dal colonialismo (Libano, Palestina-Israele, Siria, Giordania, Iraq, Kurdistan…) e rifiuta la divisione su base etnica della regione, che serve solo a chi vuole dividere per regnare. E’ superfluo dire che principi del genere, pericolosi per i governi dei paesi della regione, per i capi dei gruppi etnici, per lo stato israeliano e per gli integralisti religiosi di tutti i bordi, sono combattuti da tutte le parti.
In effetti, libero dal vincolo dell’interesse nazionale (nel senso stretto riservato agli stati nazionali creati all’inizio del secolo scorso) e dal legame con un dato gruppo culturale o religioso l’SSNP è l’unica formazione che riesce a produrre una analisi della situazione della regione, a mio avviso, più completa.
“La Siria non e’ sola e non e’ isolata dal resto del mondo. Subisce e interagisce con le situazioni nei paesi vicini e con il resto del mondo. La situazione irachena e quella libanese hanno delle ricadute dirette su di noi. Poi ci sono le pressioni dirette e indirette dell’America e di Israele per dominare la regione” dice il dottor Ali Abdallah, Segretario Regionale per la Siria (gli stati nazione sono chiamati regioni e lo stato è inteso come grande Siria) e primo vice presidente nazionale, dietro Giabran Arigi, il presidente Nazionale (con sede in Libano dove il partito è legale mentre rimane illegale in Siria e negli altri paesi della Grande Siria).
Dello stesso parere è anche S.K., giornalista molto vicino alle tesi del SSNP.  S.K vede, per esempio, un collegamento diretto tra le ultime uccisioni avvenute in Siria e in Libano. “Tanti vedono”, dice, “la mano dei servizi siriani dietro l’uccisione di Samir Kasir e George Haoui in Libano e anche dietro la morte dell’Imam Al Khaznaoui. Io non credo che la Siria abbia, in questo momento, bisogno di attirare ancora di più l’attenzione su di sé. Il regime siriano ha bisogno di tranquillità più di qualsiasi altra cosa. Ha bisogno di farsi dimenticare un po’. Sa di essere nel mirino degli Stati Uniti. Io vedo un collegamento diverso su queste uccisioni mirate. Kassir era molto critico nei confronti della Siria, ma questo non basta a definire una personalità così interessante come la sua. Kassir e Haoui erano entrambi laici, progressisti, opposti all’etnicizzazione del Libano e ai signori dei gruppi etnici. Mentre Al Khaznaoui era un curdo sì, ma era soprattutto un’autorità religiosa sunnita moderata e aperta al dialogo. Al Khaznaoui era doppiamente pericoloso per chi vuole trascinare tutto l’Islam sunnita tra le braccia degli estremisti e chi vuole tagliare i ponti tra Curdi e Arabi”.
“Credo che nella situazione attuale ad essere più minacciati sono quei movimenti che cercano soluzioni democratiche, laiche e pluraliste nella regione”, continua S. K. “Soffia un aria di etnicizzazione e di estremismo e chi non conferma la regola è minacciato da tutte le parti. E’ la stessa strategia adottata dappertutto. E’ come quando si cerca di mettere tutta la resistenza irachena sul conto del terrorismo di matrice islamica nascondendo il fatto che tra i resistenti ci siano nazionalisti arabi, comunisti e gruppi tribali assolutamente indipendenti dalle reti integraliste; oppure quando si vuol caricare tutta la resistenza palestinese sul conto di Hamas e Jihad Islamica, oscurando il ruolo delle formazioni laiche.Il governo siriano ha usato come tutti gli altri la carta dell’integralismo ma non e’ nel suo interesse attualmente incoraggiarlo. Non sta giocando la carta dell’integralismo in questo momento, secondo me. Qualcuno la sta giocando al suo posto. Bisogna capire che il regime in Siria e’ in mano ad una minoranza religiosa considerata dagli estremisti come apostasia, gli alauiti. Un arrivo al potere nella regione di una formazione di estrema destra religiosa metterebbe in pericolo l’intera popolazione alauita. Alle prese con una situazione internazionale molto delicata e una interna esplosiva, il regime siriano cerca di piacere all’America e fa sempre più concessioni al liberalismo e agli interessi degli Stati Uniti e di Israele. Ma sembra non basti e qualcuno (da cercare, contrariamente a quanto indica la stampa internazionale, non in Siria ma altrove) sta giocando molto sporco.”
Effettivamente, viaggiando in Medioriente si fa fatica a capire con quale logica furono tracciate le frontiere. Sembra tutto un popolo unico. Non c’è una differenza culturale, religiosa, storica o geografica che determina queste divisioni. Molto spesso sono le stesse tribù, a volte anche le stesse famiglie ad essere divise in due da una frontiera tracciata su una cartina da qualche geometra francese o inglese. “E per questo che il coinvolgimento di tanti gruppi di giovani siriani, giordani, iracheni e libanesi (di tutti i credi religiosi e politici) nella resistenza palestinese è stato completamente naturale nei primi decenni dell’occupazione. Così come oggi, sono migliaia quelli che sono andati o vanno ancora a dare una mano alla resistenza irachena”, mi spiegano i miei vari interlocutori.
La Siria, così come gli altri paesi della regione, ha in sè il potenziale umano necessario per farcela e uscire dallo stato di degrado in cui l’ha trascinata un sistema violento, corrotto e corruttore, che regna senza condivisione da più di trent’anni. Solo che i pericoli più gravi vengono dall’estero. “Già ci sono dei movimenti strani negli Stati Uniti e in Gran Bretagna”, commenta Hamed, un militante della corrente Kassioun, “ci sono dei personaggi strani, mai conosciuti nell’opposizione siriana, che hanno creato dei partiti politici e organizzano degli incontri sul modello di quelli che nel 2002/2003 tenevano quei personaggi, come Alaoui e Pachachi, che poi sono arrivati a Baghdad a bordo dei blindati americani.”  
Il paese sente di essere nel mirino dell’imperialismo americano. “Siamo quasi sicuri che saremmo noi a pagare il conto, di tutto questo”, mi dice un vecchio signore in albergo, mentre guardiamo in TV le immagini degli attentati di Londra, “aspettiamo solo di capire come.” E ho avuto l’occasione di constatare che questa idea è molto condivisa in questo momento in Siria. Ma questo non vuol dire che regni nel paese un’aria pesante di odio o di sospetto. Nonostante tutto, il cittadino siriano non perde né la sua affabilità né il suo leggendario buon umore e Damasco rimane una città dove si scherza e si ride tantissimo, e il turista di passaggio, se ignaro delle tensioni politiche della regione, si trova davanti soltanto un paese bello, tranquillo, sicuro, e una popolazione molto accogliente.