Baghdad 31/03/2004.  Si chiama Anouar. È un giovane sceicco sciita simpatico e sorridente. Se non fosse per il suo vestito, non si vedrebbe quasi che è un uomo di religione. Non ha quell’aria severa e quello sguardo quasi minaccioso che amano darsi tanti altri suoi colleghi. Anouar parla inglese abbastanza bene ed è aperto al dialogo con chiunque. Frequenta spesso gli uffici di alcune ONG italiane e dà loro spesso una mano a risolvere qualche problema. È in uno di questi uffici che l’ho incontrato e mi ha subito interessato. Intervistare un giovane uomo di religione, nonché attivista di un movimento politico religioso, per me, non è cosa semplice. Per anni, in Algeria, quelli come lui rappresentavano il nemico… un pericolo! Non so se sia il fatto di essere in un paese lontano dove uno straniero arabo può assumere una certa “neutralità” che mi fa cambiare angolo di visuale.

Con Anouar non riesco a percepire il pericolo. Eppure il pericolo c’è. L’Iraq è arrivato ad un incrocio dove tutto è possibile. Le speranze sono tante, ma anche le paure. E qui, il rischio dell’apparizione di una teocrazia delle più sanguinarie è palpabile, ci sono tutti gli ingredienti necessari: rabbia, anni di repressione e umiliazione, senso di disorientamento, povertà, ignoranza… Basta che uno stregone metta il tutto insieme. E di candidati alla stregoneria ce ne sono a bizzeffe. Ma Anouar non sembra uno di questi, almeno in apparenza. Non riesco a creare un legame tra il pericolo che si respira ovunque qui e questo simpatico giovane. Anzi, ci vedo piuttosto un bagliore di speranza: forse il dialogo non è impossibile. Accetta subito l’intervista. È uno cui piace parlare, questo è chiaro. Fissiamo l’appuntamento due giorni dopo l’Asciurà. Sarebbe stato normale trovarlo distrutto, dopo quello che è successo. Invece arriva puntuale e sorridente, come sempre. Alle condoglianze che gli fanno gli operatori italiani delle ONG, lui risponde sorridendo: “Sono fortunati! Avrei voluto essere tra i caduti, morire il giorno di Asciurà in un luogo santo. Per loro la via verso il paradiso è sicura.”

Chi è Anouar?
Anouar è un giovane iracheno, come tanti, nato nel 1976, in una famiglia modesta. Il padre è insegnante di lingua araba e di storia-geografia; mentre il nonno era poliziotto. E’ stato quest’ultimo ad emigrare da Alaamara, una provincia del Sud-est, verso Baghdad, negli anni Quaranta. È in questo periodo che la città conosce grandi cambiamenti. Fino ad allora la città restava limitata ai suoi quartieri storici: da Bab Achargi fino a Bab Al Muadham. Tutte le altre zone sono nate dopo. Baghdad era una piccola cittadina pulita e tranquilla.

Com’era visto l’insegnante all’epoca di tuo padre?
L’insegnante, nella società irachena dell’epoca, godeva di uno status privilegiato. La gente portava un rispetto profondo alla figura dell’educatore. Il degrado è iniziato negli anni Ottanta, con la guerra con l’ Iran. Tanti insegnanti sono stati mandati sul fronte e tanti non sono mai ritornati. Lo stato, per colmare il vuoto formatosi nelle scuole, fece nominare al loro posto giovani senza titoli né esperienza. Così iniziò il degrado della scuola irachena. L’ altro problema che ha colpito la scuola è la cooperazione egiziana. Com’è successo in altri paesi arabi, che hanno fatto ricorso ad insegnanti egiziani (e l’Algeria è uno dei paesi ad aver sofferto di più di questo problema, Ndr), in Iraq sono arrivati questi cooperanti egiziani che dovevano insegnare materie in cui erano praticamente ignoranti. Questo perché, all’epoca (ma è tuttora così) il sistema egiziano era talmente corrotto che chi beneficiava di questi contratti (che erano una vera manna celeste in un paese economicamente distrutto come l’Egitto) non erano i più meritevoli, ma piuttosto fratelli, cugini e amici dei vicini del responsabile di turno. Questo periodo ha distrutto i due: l’allievo e l’insegnante.

Com’era la vita a Baghdad quand’eri piccolo?
La vita dagli anni Settanta in poi, in Iraq è migliorata molto da tanti punti di vista. I soldi del petrolio finalmente contribuivano alla costruzione del paese. Il progresso si percepiva giorno dopo giorno: strade, scuole, ospedali… Ma è durato poco. Arrivato al potere nel 1979, Saddam dichiara guerra all’ Iran, con argomenti infondati. Allora comincia l’incubo.

Cosa voleva dire la guerra per il bambino che eri?
Io e quelli della mia generazione non abbiamo mai conosciuto la pace. Eravamo testimoni impotenti di quello che succedeva. Ho visto tanti uomini della mia famiglia partire e non tornare più. Qualcuno è stato rimandato indietro cadavere, ma di tantissimi non si ha nessun tipo di notizia. Ho visto gente che rifiutava di fare la guerra essere arrestata e non riapparire più. Poi c’erano gli addestramenti militari nelle scuole. Chiedi un po’ a lui… Ne sa qualcosa di quel periodo. – dice Anouar guardando verso un suo compagno che si era seduto con noi (“Io personalmente ci sono stato mandato all’età di quindici anni in guerra contro l’Iran, dice quest’ultimo. Dalla scuola, dove ci addestravano e c’insegnavano ad usare le armi, ci hanno portato verso un posto avanzato sul fronte iraniano. A quindici anni! Puoi immaginare? Alcuni di noi se la sono fatta addosso dalla paura. Ho visto altri morire, i miei compagni di classe! Per più di tre settimane siamo rimasti lì. Ci è sembrato un anno intero. Queste erano le gite scolastiche di Saddam. Era l’anno 1987, non me lo scorderò mai!”). Capisci dove è arrivata la crudeltà di quel regime? La nostra televisione accusava l’Iran di mandare bambini a combattere, ma in realtà eravamo noi a fare queste cose.” Prosegue Anouar per concludere.

Ti ricordi di qualche forma di resistenza al regime?
La resistenza c’era. C’era lo Hizb Al Daawa (islamisti – Ndr) e c’erano anche i comunisti. Questi ultimi all’epoca erano molto popolari. Per fermare le loro proteste l’esercito è entrato con i carri armati dentro i quartieri. C’era una sorta di fronte comune di tutta l’opposizione al regime. Ma a noi bambini gli adulti non dicevano nulla. C’erano troppe spie dappertutto. Mi ricordo che veniva a casa nostra, dal sud del paese, un imam sciita, un amico della famiglia. E i miei erano molto imbarazzati quando veniva. Da una parte non si poteva negare l’ospitalità all’amico, dall’altra c’era la paura di essere messi nelle liste nere. Qualche tempo dopo abbiamo saputo che questo uomo è stato ucciso. Quegli anni hanno distrutto la società irachena. Più di un milione di morti… E la società è cambiata molto. Sono apparsi dei fenomeni che non si erano mai visti prima.

1989, finalmente la pace…?
Si, è almeno quello che abbiamo pensato. Ma non durò tanto. Il regime era circondato dall’opposizione interna, il paese era in preda a gravi problemi economici. Allora Saddam decise di attaccare il Kuwait. Questo paese è stato il nostro alleato contro l’Iran e aveva finanziato buona parte della guerra. E poi, siccome ci voleva sempre una guerra per tenerci in riga, allora hanno attaccato. Durante questo periodo, stesso scenario, addestramento nelle scuole, arruolamenti forzati… Poi viene l’intervento della coalizione. Mi ricordo molto bene lo spavento delle prime esplosioni a Baghdad. La guerra con l’Iran, in fin dei conti, è rimasta lontana. Erano solo notizie, partenze di giovani e ritorno di cadaveri o d’invalidi che ci facevano capire che c’era una guerra. Gli aerei iraniani sono arrivati credo solo una volta fino a Baghdad. Ma nel ’91 è stato terribile, il boato delle esplosioni faceva vibrare tutto… Poi arriva la disfatta totale, il ritorno delle persone conosciute, parenti e vicini, dal fronte spesso a piedi, affamati, stracciati. Sono questi ultimi a portare notizie del ritiro dell’esercito e poi delle insurrezioni popolari in tutto il paese, ma soprattutto a Mossul e a Ramadi. Anche Baghdad si solleva in parte, ma poi viene la reazione terribile. L’esercito ha sparato sui civili più di quanto l’abbia fatto sull’avversario militare. Credo che abbiamo perso, in quella repressione, più di un milione di persone. Sono giunti racconti di ragazzi di 14-15 anni costretti a raccogliere i cadaveri per le strade; e quelli che cadevano di stanchezza erano giustiziati sul posto e buttati nelle fosse comuni con gli altri.

Un periodo molto duro. Ma poi si ritorna alla normalità?
Normalità è un po’ esagerato. Si ritorna ad una calma apparente. Lo stato diventa più duro che mai. Aumenta la propaganda, la sorveglianza e la repressione di qualsiasi voce di dissenso. Poi inizia anche una campagna di discriminazioni nei confronti di quelli provenienti dal sud-est, gli Sciuruga com’erano chiamati con disprezzo, perché il sud-est è stata la regione delle più grosse insurrezioni e anche dei più grandi massacri… Da un’altra parte il regime aveva capito che qualcosa era cambiato, che doveva fare i conti con noi, gli Sciiti. Allora cercò di sedurre la élite liberando alcuni di loro e chiedendo di creare una Haouza irachena e di non dipendere più dalle autorità religiose iraniane. Uno degli ayatollah iracheni: Mohamed Mohamed Sadeq Assadr, liberato nel 1990 dopo anni e anni di prigionia, accettò di comporre questo comitato. Qui mi fermo per chiederti di non affermare che era d’accordo con Saddam, che era una specie di collaborazionista…

Io scriverò quello che mi dirai, come me lo dirai. Né più né meno…
D’accordo! Quindi nel 1994, l’ayatollah Mohamed Assadr creò questo Haouza iracheno e iniziò una vera rinascita islamica in Iraq. Formò tanti giovani e riuscì a riportare tante persone verso la fede. Nel 1998 organizzò la prima preghiera del venerdì sciita. Qui bisogna sapere che in Iraq, da più di 1360 anni non si era celebrata una tale preghiera. Gli sciiti andavano alla moschea, tutti i giorni, ma il venerdì ognuno pregava a casa. Perché questa celebrazione da noi ha bisogno di alcune condizioni che tutti i regimi iracheni fino ad oggi hanno sempre vietato. Una realizzazione importante di quest’uomo, che purtroppo fu assassinato il 19 febbraio del 1999, fu l’impegno per stabilire regole comuni con i nostri fratelli Sunniti.

C’era anche un’opposizione armata?
Si c’era, ma era debole. In realtà le autorità religiose non l’hanno mai incoraggiata. Allo stesso Assadr, una volta, fu chiesto di appoggiare un tentativo di colpo di stato e rispose: “Non voglio un giorno incontrare il mio creatore essendo macchiato col sangue dei credenti.” Poi il resto della storia lo conosciamo tutti ed eccoci arrivati all’attuale situazione.

Come hai vissuto quest’ultima invasione?
Qualche giorno prima dell’invasione, siamo stati arrestati collettivamente a Najjaf, tutti quelli che erano schedati per le attività religiose. Però non era più un regime potente che ci arrestava per reprimerci, era un potere alla deriva che cercava aiuto presso le sue vittime precedenti. La maggior parte di noi, quando l’ufficiale ci ha spiegato che si aspettavano da noi un aiuto per respingere il nemico comune, è rimasta zitta senza dire né sì né no. Ma qualcuno ha osato superare la paura e ha risposto che la morte sotto i missili americani era meglio che la vita sotto l’oppressione eterna di Saddam. L’ufficiale disse: “Se io avessi il permesso, vi avrei già massacrati sul campo, qui! Ma purtroppo ho ricevuto ordini chiari di rilasciarvi, sani e salvi, quindi andate.” Però non è che siamo contenti dell’invasione. Io sono convinto che gli americani non sono qua per il petrolio, perché Saddam era pronto a dargli tutto pur di rimanere al potere. Sono qua per noi. Sono qua per fermare la “Rivoluzione Islamica” in Iraq. Durante l’inizio delle ostilità, tutti quelli che potevano permetterselo si sono spostati verso zone di campagna o comunque lontano dai centri urbani più densi. Io ero, nella clandestinità e lo sono tuttora, responsabile di una zona nella periferia di Baghdad verso Nord Est. Nonostante la paura, sono rimasto fino a quando tutti si erano, più o meno, sistemati. Ho distribuito il poco di soldi di cui disponevo, poi sono andato a rifugiarmi fuori città anch’io. Siamo tornati dopo l’invasione. La città era sotto sopra. C’erano bande armate dappertutto. La situazione era drammatica. Mancavamo di tutto. Ma ci siamo organizzati molto velocemente e grazie ai volontari, alla buona volontà della gente ora va un po’ meglio.

Dici che sei un responsabile religioso. Spiegami un po’ com’è organizzato il vostro clero?
In cima alla piramide c’è il consiglio della Haouza. Questo è composto dai Margia, i più alti riferimenti religiosi. Tra loro il primo: l’Ayatollah Sistani, poi Al Fayadh, Al Hakim… Sotto il Margia c’è il Fadhil, poi viene il Allamah e poi viene il Talib (studente). Io sono un Allamah. Ho a mio carico una moschea, una comunità e poi dei Tullab (studenti). Io continuo a studiare periodicamente presso un Fadhil e ogni Fadhil studia presso un Margia.

In Iraq oggi, secondo te, chi conduce questa rivoluzione islamica, di cui hai parlato?
Negli anni ottanta, c’era il partito Hizb Al Daawa. Quando è scoppiata la guerra con l’Iran, parte dei suoi militanti si sono rifugiati in Iran e hanno conservato il vecchio nome e l’altra parte, rimasta in Iraq nonostante tutto, si è chiamata l’Alto Consiglio della Rivoluzione Islamica in Iraq: sono questi i maggiori movimenti politici che conducono la rivoluzione e poi ci sono le nostre alte autorità religiose.

Che mi dici di Muqtada Assadr e del suo Esercito del Mahdi?
Sai, Muqtada è spesso presentato dalla stampa occidentale come un estremista. In realtà non è così. Io lo conosco personalmente, è una brava persona. Ha il livello di Fadhil. Non è un’autorità religiosa molto alta. Però ha tanta buona volontà. È uno combattivo, poi è il figlio di un grande simbolo per la nostra lotta. Il suo non è un esercito armato nel vero senso della parola. È un esercito di volontari per rispondere alle sfide che ci aspettano in materia di ricostruzione, di riorganizzazione della società e di solidarietà. E’ ovvio che se si sentono attaccati si difenderanno senz’altro.