Un giornalista algerino racconta la vita nella capitale irachena. 

12/03/2004 – Baghdad è una città enorme. È una megalopoli di circa 8 milioni di anime. E, tenendo conto che i palazzi di più di tre piani sono pochissimi e che la maggior parte dei suoi abitanti vivono in case individuali a terra o con un solo piano, e che le strade sono molto larghe e i marciapiedi spaziosissimi, provate ad immaginare quanta superficie può occupare una città del genere.

040311baghdad3Questo deve essere sicuramente dovuto al fatto che tutta la zona galleggia sull’acqua. Infatti, nelle parti antiche della città la maggioranza delle case ha una cantina che durante il periodo invernale è piena d’acqua. Meno male che da queste parti, l’inverno dura pochissimo.

Non si può affermare che Baghdad sia una bella città. Anche se, un certo fascino, lo trasmette. È una città caotica, rumorosa, polverosa d’estate e fangosa d’inverno. I suoi quartieri popolari sono molto sporchi. Ma rimane una città che ha un’anima, che vive, che parla… Una città che vive nonostante tutto.

I quartieri storici sono molto degradati. Ci vuole tanta attenzione per indovinare, dietro le crepe, la polvere e i troppi cartelli ed insegne, le belle case di una volta. Ma ci sono ancora. Testimoni della discesa verso l’inferno di quella che fu un tempo, come la sua conquistatrice Washington D.C oggi, la capitale del mondo.

Baghdad è una nobile anziana. Da sotto le rughe si vede che fu bella, molto bella. Potrebbe ancora esserlo, se si curassero le sue tante malattie. Ma il regime che l’ha dominata per decenni non si preoccupò di curarla per bene. Si accontentò di truccarla eccessivamente e di coprirla di vestiti appariscenti. Questa è la Baghdad di oggi: strade distrutte, quartieri storici in rovina, fogne sventrate e sporcizia, nelle parti povere, palazzi di marmo, torri ultramoderne, ville da favola e moschee giganti in costruzione, nelle parti nuove.

All’ingresso della via si trova il famoso caffè Al Sciahbandar, punto di ritrovo di artisti, scrittori e giornalisti. Dall’aspetto sembra un semplice caffè popolare (più grande e più affollato) dove si beve tè e si fuma il narghilè. Ci si sente irresistibilmente attratti da questo posto ogni venerdì. Alla fine magari non si comprano neanche tanti libri: si passeggia, si guarda, si sfoglia.

Ultimamente ho deciso di focalizzare le mie ricerche sulla diversità culturale, religiosa e linguistica in Iraq. Ho già comprato un grosso volume sulla diversità religiosa in Iraq e un altro sulla minoranza yazidita, una minoranza religiosa che vive nelle montagne del nord. Per due euro e mezzo, ho comprato l’Iraq Hand Book, una pubblicazione del 2002, del Dipartimento d’Intelligence Militare degli Stati Uniti, ad uso esclusivo (secondo quello che è scritto sulla prima pagina) degli ufficiali USA e NATO, presenti sul suolo iracheno.

Se si toglie l’ampia parte descrittiva del sistema militare e degli armamenti del defunto esercito iracheno, sembra una guida turistica per “spie dilettanti e autoreferenziali”. Ci si può leggere per esempio che la superficie totale dell’Iraq è di 435,292 km2, con la precisazione slightly larger than California (poco più grande della California).

Per chi cerca di immaginare lo stato di Baghdad, in questo già lontano dopoguerra, bisogna tenere conto di una cosa: Baghdad, come quasi tutto l’Iraq, è stata teatro, subito dopo la caduta del regime, di saccheggi e incendi sistematici e generalizzati di tutto quello che era pubblico e/o governativo.

Niente è sopravvissuto alla follia distruttrice delle decine di migliaia di saccheggiatori accorsi per cancellare ogni traccia del vecchio regime, ma anche semplicemente per riempirsi le tasche. I racconti parlano di saccheggi organizzati e protetti dalle forze di occupazione. Molto spesso, le truppe della coalizione arrivavano per prendere possesso del luogo, rompevano le porte con i loro blindati, disarmavano le rare guardie rimaste sul posto di lavoro, poi lasciavano il passaggio libero alle folle di saccheggiatori che li seguivano come gli avvoltoi seguono i predatori. È stato voluto, dicono tutti qua. Prova ne sia il fatto che l’unico posto dove non è stato possibile entrare è il ministero del petrolio. Lì le forze alleate hanno messo guardie e hanno preso possesso del luogo immediatamente.

Immaginate una città in cui tutto è da rifare. Niente amministrazioni (anagrafe, archivi…), niente ospedali (i pochi sopravvissuti sono stati difesi dal personale medico e paramedico armi alla mano), niente teatri, niente musei, niente biblioteche, niente scuole, niente banche, assicurazioni, previdenza sociale, pensioni… Tutto andato in fumo, tutto da rifare da zero. Immaginate lo stato di terrore in cui si trovava la popolazione nell’indomani dello sbarco. Senza energia elettrica né gas, senza nessun servizio, senza sicurezza: le strade erano piene di gruppi, armati e non, che aggredivano, rubavano e imponevano la loro legge a tutti.

In questo momento l’Iraq, comunque, si sta riorganizzando abbastanza velocemente. Tutte le amministrazioni sono state riaperte. Spesso senza niente per lavorare: né telefoni, né computer. Vengono ripristinati i sistemi di comunicazione e la città poco a poco riprende a funzionare.

Le comunicazioni si stanno riorganizzando a due velocità. Una lenta e un’altra veloce. Da una parte, la compagnia nazionale di telecomunicazioni sta rimettendo in sesto poco a poco la rete telefonica, ma quartiere dopo quartiere, casa dopo casa… e si può solo telefonare in città, per il momento. Non si possono chiamare le provincie o all’estero. La telecomunicazione mobile e Internet si stanno invece sviluppando ad una velocità incredibile.

Bisogna sapere che prima della guerra gli iracheni in maggioranza non avevano accesso alla rete. Oggi, i centri Internet crescono come erbe selvagge e la classe media irachena, purché viva in un quartiere dove il telefono fisso è stato ristabilito, è collegata ad Internet. Il mercato dell’informatica vive un boom eccezionale: bisognerebbe vedere il quartiere specializzato, di fronte all’università di tecnologia, pieno zeppo di merce e i camion continuano ogni giorno a scaricarci tonnellate e tonnellate di merce. È impressionante. Come impressionante è anche il mercato di Karada, quello dell’elettrodomestico. Questa era una zona che fino a poco fa era specializzata in abbigliamento. Oggi, quasi tutti i venditori si sono riciclati nell’elettronica e negli elettrodomestici.

I negozi sembrano troppo piccoli e traboccano sulle strade. Il marciapiede è invaso da cartoni di merce, pannelli pubblicitari e montagne di basi metalliche per antenne satellitari. Oltre all’elettrodomestico e alla Tv satellitare, l’altro boom, ovviamente, è quello della telefonia mobile. Il cellulare a Baghdad è targato Iraqna. Iraqna è il nome della filiale irachena della multinazionale araba Orascom.

Orascom è una società basata al Cairo, in Egitto, con capitali provenienti dai paesi del Golfo. Orascom è presente come prima o seconda compagnia di telefonia mobile nella quasi totalità dei paesi arabi. Sul conto della compagnia si raccontano vari scandali e c’è chi sostiene che  siano implicati anche nel finanziamento di vari gruppi islamici armati nel mondo.

I governi amano Orascom per una sua particolarità. Tutte le compagnie multinazionali pagano ai politici locali qualcosa per avere libertà sui mercati, per stare in pace, per coprire i loro pasticci, per sfruttare tranquillamente persone e risorse naturali dei paesi. Ma Orascom ha migliorato un po’ il sistema. Loro pagano solo i politici e si assicurano la copertura politica. Poi, entrati nel mercato, non investono quasi nulla, non portano soldi freschi all’economia del paese, anzi: costruiscono tutto con i soldi del consumatore. Hanno fatto così in Algeria. E adesso qua in Iraq ripetono la stessa cosa.

In che cosa consiste la fregatura? Praticamente, a Baghdad e nel centro dell’Iraq, Orascom ha un contratto di esclusiva per ben due anni. Due anni per imporre la sua legge sul mercato della quasi metà della popolazione irachena. Essendo il nord e sud gestiti da altri operatori. La compagnia sta vendendo milioni di linee. La vendita di una linea è abbinata a quella di un telefonino, venduto ad un prezzo molto alto (circa 120 euro) se si tiene conto che in Iraq, oggi, non ci sono né IVA, né tasse doganali né alcun tipo di altra imposta. Ci vanno aggiunti trenta euro di sim card e ogni mese una ricarica obbligatoria (altrimenti scade l’abbonamento) di minimo 20 dollari di cui 10 di ricarica e 10 di traffico. Totale nell’anno una persona spende 120 USD solo di canone senza contare le tariffe di comunicazione che sono carissime.

Questo andrebbe anche bene se funzionasse. Ma Orascom, esattamente come ha fatto in Algeria, sta vendendo i telefonini e le linee prima di costruire la rete. Praticamente, centinaia di migliaia di iracheni, in questo momento hanno in tasca un costosissimo giocatolo di 150 USD e per il quale pagano 10 USD al mese che serve nella maggior parte dei casi solo per i giochini e per farsi vedere. Perché non prende quasi da nessuna parte se si esce dal centro di Baghdad. E poi, non si può neanche parlare con gli abbonati delle reti del Nord e del Sud.

Un bel colpo per la compagnia che praticamente ha venduto la pelle dell’orso prima di averlo catturato, e che potrà adesso tranquillamente creare la rete con i soldi degli Iracheni.

Pubbliacto su Peace reporter