Una foto in una mostra sulla “rotta balcanica” ha tirato la mia attenzione e mi ha portato a riflettere sul destino di queste persone intrapolate in un non luogo tra la povertà e la ricchezza, tra la speranza e la disperazione. Ma anche sulle lotte dei popoli per far finire questo sistema criminale che manda la gente a morire in mare o lungo i muri della vergogna.
Torino. il 27 settembre 2019, presso la sede storica dell’Alma Mater, è stato organizzato un incontro, “Bosnia il confine sulla pelle”, sulla così detta “Rotta balcanica”. Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi e Gabriele Proglio ci hanno raccontato a voce l’orrore vissuto tutti i giorni dalle persone incastrate in questa prigione a cielo aperto che sono diventati i confini tra la Bosnia e la Croazia.
Un racconto forte, emozionante, straziante.
Mentre la mostra “Corpi Fuori posto” della fotografa Emanuela Zampa lo racconta tramite le immagini forti dei luoghi, dove si consuma questa tragedia silenziosa.
Si tratta della tragedia di chi per entrare nella comunità europea, non ha preso una barca, ma ha scelto di attraversare la Turchia, la Grecia e poi attraversare i paesi del Balcani, a piedi, in condizioni disumane.
Conosco personalmente diverse persone che hanno camminato per 2-3 anni dalla Grecia all’Italia. Uno di questi è un mio cugino. Ho conosciuto persino un tipo, originario da Meftah, una cittadina in periferia di Algeri, che ha fatto il viaggio con moglie e figlia. La loro bambina aveva solo 2 anni quando lasciarono l’Algeria. Quando arrivarono a Torino ne aveva quasi.

La mostra fotografica “Corpi fuori posto” racconta questi “fantasmi” che cercano di sopravvivere in campi improvvisati, a Bihac e altri angoli sperduti della Bosnia. Bloccati dalla chiusura dei confini occidentali. Racconta la loro vita fatta di sofferenza, fame, freddo, disprezzo e violenze. Dimenticati da tutti.
Un foto mi ha colpito in modo particolare. In questa foto, una bambina o un ragazzo, entra in una stanza abbandonata piena di immondizia. Le pareti sono coperte di graffiti. Chiedo alla fotografa, se sa cosa dicono questi graffiti … Mi dice di no, ma che il segno che si vede è molto diffuso in questi luoghi.
Il segno che si vede sulle pareti di questo lugubre luogo è un simbolo amazigh (berbero): la lettera Z dell’alfabeto tifinagh, considerato anche simbolo del popolo Amazigh. Accanto al segno sono incisi i nomi “Tazmalt, Amara, Imade”.
Amara e Imade sono probabilmente due giovani provenienti dalla cittadina di Tazmalt, una piccola città della provincia di Bejaia, in Cabilia (Nord dell’Algeria). Hanno lasciato il loro segno per dire che sono stati lì.
Non sono i soli. Gabriele Proglio, un ricercatore che ha lavorato in questi campi improvvisati, mi ha detto che ci sono molti giovani della mia Cabilia in questi campi. Sopra uno di loro a Bihac c’è persino una bandiera Amazigh che galleggia. Sono i ragazzi cabili che gestiscono in qualche modo il campo. Distribuzione di spazi, degli aiuti, contatto con volontari e organizzazioni solidali. L’autogestione ancestrale dei nostri villaggi berberi applicata in questi campi della disperazione?
Sono giovani che hanno lasciato l’Algeria fugendo da disoccupazione e assenza di prospettive. Seduti sotto un ulivo o in qualche cantiere abbandonato, a fumare canne e bere birra scadente, hanno partorito il loro progetto. Andare, verso il paradiso. Andare dove la speranza è permessa!
Ed eccoli qui: chiusi in un inferno senza nome, in mezzo al nulla. Bihan, Ripac, Bregovica, Ostrojac, Sturlic … Località sparse tra le foreste al confine tra Bosnia e Croazia. Luoghi ancora infestati dalle mine e dagli echi degli orrori di un passato ancora presente.
Chissà come stanno Amara e Imade? Sono ancora vivi e in salute? Sono riusciti a passare? La terribile polizia croata non li ha presi? Sono sfuggiti alle torture e alle umiliazioni che criminali di guerra fretolosamente convertiti in “guardiani della pace” infliggono agli sfortunati che cadono tra le loro mani? Sono ancora nei campi della disperazione a combattere con la fame e il freddo. Quello terribile freddo delle notti dell’inverno bosniaco, che mangia la pelle e arriva alle ossa.
Quali notizie notizie hanno inviato a casa? Quali menzogne hanno inventato per tranquilizzare le loro mamme? Stiamo bene, mangiamo bene. Abbiamo un lavoro. Non ti preoccupare, mamma… E’ tutto a posto.
Lo sanno, Amara e Imade, che i loro concittadini stanno lottando per la fine del sistema che li ha portati alla disperazione? Lo sanno che milioni di persone escono ogni setimana per le strade perchè finisca questo regime che manda i nostri giovani a morire in mare o lungo i confini dei paesi ricchi? Lo sanno tutto questo, queste due povere falene? Falene attratte dalla luce inganevole di un paradiso che esiste solo nelle loro teste.