Questi giorni la piazza Tahrir si è riempita di nuovo di gente e oggi (venerdì 15/07/2011) di fronte ai palazzi della Casba, a Tunisi la polizia ha sparato i lacrimogeni per disperdere una manifestazione.
L’amore tra società civile e esercito è durato poco, ma finora si era sempre trovata una specie di equilibrio. Equilibrio che in queste ore sembra del tutto rotto rotto. Le piazze si sono riaperte di nuovo, l’aria è fortemente elettrizzata. Potrebbe scoppiare da un momento all’altro. La favoletta dell’esercito amico del popolo non fa più dormire i bambini. (foto – Tunisie numerique)
Eppure in Tunisia le cose sembravano andare molto bene. Si era spiegato a tutti che l’esercito tunisino era una istituzione neutrale, da tempo tenuta lontano dal potere. Il regno di Benalì era costruito sulle forze di polizia. 130.000 uomini in divisa più spie e informatori in ogni angolo di strada. L’esercito era lasciato da parte. Un pugno di ufficiali di professione a badare a qualche migliaio di giovani della leva. Poco numeroso, poco attrezzato, assente dalla scena politica.
Quando, a metà gennaio, dopo consultazione con l’ambasciata statunitense, il capo di Stato maggiore Rachid Ben Amara faceva dire a Benalì che era meglio imbarcarsi sull’areo che portava la sua famiglia in Arabia saudita, l’opinione pubblica era già preparata da giorni a vedere l’esercito prendere il potere. In effetti, girava già da un po’ la leggenda del Generale Ben Ammar che avrebbe disobbedito e rifiutato di sparare sul proprio popolo. E nelle piazze, i manifestanti salutavano già i militari come fossero compagni di lotta.
In Egitto invece le cose non sono state così semplici. L’esercito sulle rive nord del Nilo è in mano all’esercito dal 1953, anno della rivoluzione degli ufficiali liberi e di Gamal Abdel Nasser.
I generali egiziani sono sempre stati il pilastro centrale del regime. Nasser era ufficiale, Sadat dopo di lui era sempre ufficiale. E Mubarak, anche se non si è mai esibito in uniforme come i suoi predecessori, lo era anche lui.
La presa di potere da parte del “consiglio militare” ufficialmente per una transizione democratica, è stata accettata soltanto perché c’era poca scelta. Le piazze di protesta dopo settimane di sit-in si stavano trasformando in veri e propri campi da battaglia. Polizia e Baltaghia facevano regnare il terrore più assoluto. I manifestanti erano esausti e la maggioranza del popolo non chiedeva altro che credere nello slogan : “giaish, sciab, yad wahida” (esercito e popolo una sola mano).
Oggi in tutti e due i paesi l’idillio è ben che finito. È chiaro a tutti che i due governi garantiti dagli eserciti fanno di tutto per mantenere i sistemi intatti. Cambiando soltanto un pochino le vetrine e attuando qualche ricambio generazionale in alcuni posti poco strategici.
Fatto sta che le popolazioni adesso che hanno preso la parola, non hanno più voglia di mollare. E quindi lo scontro è inevitabile.
Nello stesso momento, dalla Siria, arrivano notizie sull’esercito che si sarebbe interposto tra i manifestanti e le forze speciali del regime a Deraa. Questo, se si conferma (in questa situazione, il dubbio è sempre d’obbligo), potrebbe voler dire che alcuni reparti dell’esercito cominciano a guardare ad una soluzione all’egiziana.
Ma nello stesso tempo, mentre a piazza Tahrir cuociono sotto il sole di piombo e alla Casbah fuggono davanti ai gas velenosi, i giovani egiziani e tunisini hanno capito che quello che hanno fatto finora non si può ancora chiamare rivoluzione, che nessuno regala la libertà e i diritti a nessuno e che forse… forse la vera rivoluzione non è ancora iniziata.