La realtà è troppo complessa, la guerra troppo irragionevole. Intervista allo scrittore algerino Karim Metref

Articolo di Carlotta Caldonazzoalgerie-emeutes

11/04/2011 – I raid della Nato sulla Libia non riescono a mettere fine ai combattimenti tra gli insorti e le truppe del colonnello Gheddafi, né tantomeno a convincere quest’ultimo a lasciare il potere. Ieri i presidenti di Sudafrica, Mali, Mauritania, Uganda e Repubblica del Congo, in veste di mediatori dell’Unione Africana, sono partiti per Tripoli, dove incontreranno Gheddafi, per parlare successivamente con i rappresentanti del Consiglio Nazionale Transitorio a Bengasi. Intanto le forze fedeli al Colonnello hanno bombardato Misurata e si contendono con gli insorti (sostenuti dai bombardamenti Nato) il controllo di Ajdabiya, nonostante l’Unione africana abbia chiesto di sospendere le ostilità per facilitare il tentativo di mediazione. Contemporaneamente, secondo l’agenzia di stampa Afp, dopo i bombardamenti israeliani degli ultimi giorni, la Lega Araba ha espresso l’intenzione di chiedere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite l’imposizione di una zona di interdizione al volo su Gaza.

Di fronte al disastro l’unica via di uscita è riflettere sull’inefficacia della guerra come strumento per risolvere le controversie internazionali ed elaborare nuovi comportamenti e modi di pensare per realizzare una vera convivenza tra popoli e individui. Per dirla con Voltaire, “sarà dunque la forza a decidere finché la ragione non entrerà in un numero abbastanza grande di teste da poter disarmare la forza”.

Sulla guerra e sui regimi è stato chiesto il parere dello scrittore algerino Karim Metref, autore di Quando la testa ritrova il corpo (EGA, Torino 2003), Baghdad e la sua gente (Terre Des Hommes Italia, 2005), Caravan to Baghdad (Mangrovie, 2007) e Tagliato per l’esilio (Mangrovie, 2008).

Secondo lei la comunità internazionale, la Lega Araba e l’Unione Africana avrebbero dovuto lasciare al popolo libico la possibilità di liberarsi da solo dal regime di Gheddafi oppure avrebbero dovuto scegliere altre vie di intervento (diverse dai bombardamenti)? Quali ad esempio?

Secondo me i problemi dovrebbero essere trattati nella loro complessità e non sull’onda dell’emozione creata a tavolino da una informazione a senso unico. Quello che succede in Libia è molto più complicato di come ce l’hanno presentato nei primi giorni. Ci hanno raccontato che la Libia era quasi tutta in mano al popolo e che rimaneva solo il palazzo presidenziale in mano a Gheddafi e ai suoi figli. Ci hanno detto che ci sono stati dei genocidi… tutta una serie di bugie che oggi sono state svelate.

Io credo che se uno vuole fare smettere la violenza può usare l’interposizione, può usare la diplomazia, la ricerca del ripristino di un dialogo, usare la forza se necessario (e forza non vuol dire violenza), ma non entrare nella mischia e colpire a destra a manca. La Libia è un paese piccolo, ha un esercito ridicolo rispetto alle potenze che lo stanno circondando. Un paese tra l’altro che non è nemmeno autosufficiente dal punto di vista alimentare: un assedio di un mese intorno a Tripoli e la città non avrebbe più niente da mangiare.

Gheddafi è uno psicopatico, mitomane, assassino e tutto quello che vogliamo ma non è stupido e sa quello che può e non può permettersi. Da quando ha visto quello che è successo a Saddam, aveva cambiato completamente modo di agire e di parlare con le potenze militari del pianeta. E soprattutto con le multinazionali del petrolio. Questo vuol dire che una buona pressione e richiesta di cessare i combattimenti, ma con uno spazio di trattativa possibile, potevano avere un risultato. È ovvio che se due ore dopo la risoluzione ONU la guerra era già in fase di piena attività, la trattativa non ha nessuna chance.

Hanno detto che Gheddafi non ha rispettato il cessate il fuoco annunciato, forse è vero. Ma è anche vero che sono rare le guerre in cui il cessate il fuoco è rispettato subito. Ci vogliono vari tentativi prima di arrivare ad una soluzione negoziata di un conflitto armato. Questi tentativi non sono mai stati fatti. È chiaro che la guerra totale era l’obiettivo primo di chi è intervenuto. E anche la caduta del regime, arrogandosi così una prerogativa che non è loro. A me sembrava fosse compito dei popoli decidere se un governo è rappresentativo o meno, non della triade Sarkozy-Cameron-Obama. Al limite si mette il paese in sicurezza e si monitora un referendum popolare per o contro il cambiamento. Qualcosa del genere. Ma non decidere a Parigi o a Londra che Gheddafi deve andarsene.

In paesi come l’Algeria e il Marocco le proteste popolari non sono arrivate a far cadere i governi locali. Secondo lei perché?

L’Algeria e il Marocco hanno dei sistemi molto più complicati di quelli tunisino o egiziano. La Tunisia era una piramide quasi perfetta: Ben Ali in alto e tutti gli altri compatti sotto. In Egitto la situazione era ancora diversa, però il partito del presidente e l’esercito erano compatti e si spartivano tutto il potere politico, militare e economico. Algeria e Marocco hanno, a loro volta, una geometria dei loro sistemi di potere molto più complessa. I due paesi hanno sempre gestito le manifestazioni di dissenso con molta intelligenza. Hanno un entrambi un modo di fare nella repressione, fine ma efficace, molto avanzato. Così come sono entrambi diventati maestri nel creare illusioni di funzionamenti democratici e valvole di sfogo per la rabbia popolare.

In Algeria il potere è policentrico: é diviso tra i generali dell’esercito, il presidente Bouteflika e la sua cricca e alcuni dinosauri del vecchio Partito del Fronte di Liberazione Nazionale. Ogni gruppo ha in mano un settore dell’economia algerina, una parte della stampa e qualche partito politico dentro e fuori dalla maggioranza, creando così un’illusione di funzionamento democratico in cui, ad esempio, la stampa ha libertà che in Tunisia non si potevano nemmeno immaginare. Le rivolte quindi non riescono ad avere obiettivi chiari come la partenza del Rais ad esempio, perché tutti sanno che indebolire un solo centro di potere vuol dire rafforzare gli altri. In Marocco, la figura del Re è un ostacolo molto grosso. La propaganda ufficiale è riuscita a farlo vedere come una figura super partes, quasi neutra. Caricando la figura del precedente monarca, Hassan II, di tutti i peccati del mondo, si è creata un’immagine del giovane re Mohammed VI come di un salvatore, di un difensore delle libertà e dei diritti. In realtà non è neutrale e continua a concentrare tutti i poteri significativi in mano sua, lasciando al parlamento e ai vari governi solo il compito di gestire la quotidianità e di beccarsi anche le critiche. La “democrazia” in Marocco, come quella in Algeria, ha ampi spazi di libertà e confini invalicabili. Mentre si può dire quello che si vuole sul governo, il Re, il peso economico della famiglia reale, il ruolo dell’esercito o la corruzione dei servizi di sicurezza rimangono dei tabù assoluti per i quali si continua a sparire nella notte. Il movimento per il cambiamento per ora chiede una “monarchia costituzionale” e più poteri per il parlamento. Ma sembra un discorso che non riesce ad attecchire, e soprattutto il vero problema del paese sono le disuguaglianze sociali. Tema che non si riesce ad affrontare senza toccare gli interessi delle poche famiglie che tengono in mano l’economia del paese.

In Algeria le manifestazioni indette dal CNCD non hanno avuto una vastissima partecipazione popolare. Perché?

Il movimento per il cambiamento in Algeria soffre di vari problemi. Uno è l’assenza di simboli forti dei poteri sui quali focalizzare la propria lotta. L’Algeria è un paese in cui la piccola gente non conosce il nome e la faccia di chi detiene il potere: a parte il presidente Bouteflika, che ne tiene una parte ma non tutto, il resto degli uomini potenti del paese è invisibile. Per una protesta come quella dei paesi arabi in questo momento, che non è impostata ideologicamente, non avere un obiettivo chiaro da abbattere può essere un problema.

L’altro problema in Algeria è l’ombra della guerra civile. L’Algeria ha vissuto un periodo traumatico tra gli anni ‘90 e l’inizio dei 2000. Quindici anni di guerra civile sanguinosa, un trauma che continua a pesare sulla coscienza collettiva. Quindi da una parte la gente affronta apertamente i problemi legati alla vita quotidiana e da anni in Algeria le sommosse per la casa, per l’acqua, per il lavoro, per ogni motivo sono all’ordine del giorno, e sommosse regionali o locali a volte si propagano su tutto il territorio. Dall’altra parte tuttavia non si riesce ad affrontare il problema alla base, perché buona parte della popolazione continua a vedere nello stato e nell’esercito i garanti della pace, come se la paura di ricadere nella guerra paralizzasse i movimenti.

L’altra ragione, secondo me, è l’alta militarizzazione del territorio. In Algeria i carri armati non devono uscire, visto che da 20 anni stanno nelle strade. Ogni incrocio è militarizzato, ogni città è sotto assedio e il governo ha acquisito un vero know how nella gestione delle rivolte. La tanto attesa manifestazione del 12 febbraio, ad esempio, fu smantellata in modo molto efficace e senza troppi rumori: i posti di blocco hanno fermato pullman di manifestanti provenienti da fuori, mentre uno schieramento di ben 30.000 poliziotti non ha avuto nessuna difficoltà a rimandare a casa le poche migliaia di manifestanti arrivate al centro della città.

Come giudica l’atteggiamento delle autorità italiane ed europee nei confronti dei migranti? Quale sarebbe per lei il comportamento più giusto?

Quello che succede con questa storia è una vera vergogna sia per l’Italia che per l’Europa. Un continente messo in difficoltà dall’arrivo d 10.000 persone. La piccola Tunisia sta affrontando con grande dignità e efficienza una vera emergenza. Il numero di sfollati e profughi che hanno attraversato la Tunisia o che ancora vi restano in attesa di poter raggiungere i propri paesi sono stimati a centinaia di migliaia. Eppure, dopo un attimo di panico, la piccola e povera Tunisia si è attrezzata e organizzata e sta facendo fronte all’emergenza in modo veramente ammirevole. L’Europa invece, così pronta a sganciare bombe da 1 milione di euro l’una, si trova in difficoltà di fronte a 10.000 ragazzi in cerca di futuro. Vergognoso il “No” secco e chiaro dei paesi del Nord dell’Europa alla partecipazione alla gestione della crisi, vergognosa la blindatura delle frontiere da parte dei francesi, vergognoso il silenzio del parlamento europeo, vergognosi i campi circondati di filo-spinato e la militarizzazione… Ma più vergognoso di tutto è stato lasciare 5000 persone su una piccola isola sprovvista di risorse a dormire per terra per giorni e giorni.

carlotta.caldonazzo@arabismo.it

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